Progetto editoriale

Gli autori

di
Ian
Tattersall
Ian Tattersall
Ian Tattersall è un paleoantropologo e primatologo, attualmente curatore emerito della Divisione di Antropologia dell’American Museum of Natural History di New York.  I suoi interessi di ricerca sono molteplici: a partire dal modo in cui riconosciamo le specie e come esse si relazionano fra loro partendo dalle tracce nei fossili umani; la sistematica e l’ecologia dei lemuri del Madagascar (la bellissima specie Propithecus tattersalli porta il suo nome); e come gli esseri umani sono diventati la straordinaria entità cognitiva che sono.  
Ha svolto ricerche sul campo in Paesi diversi come Madagascar, Vietnam, Yemen, Mauritius e Suriname e, oltre a più di 400 articoli scientifici e libri, ha scritto molto per il pubblico; le sue opere più recenti in questo settore sono The Accidental Homo sapiens: Genetics, Behavior, and Free Will (2019), Distilled: A Natural History of Spirits (2022), Understanding Race (2022) (tutti con Rob DeSalle) e Understanding Human Evolution (2022). Come curatore di musei per tutta la sua carriera ha curato anche numerose mostre all’AMNH e altrove, da Ancestors: Four Million Years of Humanity (1984) alla Anne and Bernard Spitzer Hall of Human Origins (2007).
e
Rob
DeSalle
Rob DeSalle
Curatore dell'Istituto di genomica comparativa e professore della Richard Gilder Graduate School dell'American Museum of Natural History.
Si occupa di sistematica molecolare, evoluzione microbica e genomica. La sua ricerca attuale riguarda lo sviluppo di strumenti bioinformatici per gestire problemi di genomica su larga scala utilizzando approcci sistematici filogenetici. Il dottor DeSalle ha lavorato a stretto contatto con i colleghi dei Cold Spring Harbor Labs, della New York University e del New York Botanical Garden sulla genomica delle piante da seme e sullo sviluppo di strumenti per stabilire l'appartenenza a famiglie di geni su scala genomica. Il suo gruppo si occupa anche di studi sulla variazione umana, genomica microbica, tassonomia e sistematica. In particolare, si occupa di questioni relative all'albero della vita utilizzando informazioni sull'intero genoma. Si diletta anche nella sistematica della Drosophila.

Qual è il problema dei bambini di oggi?
L’aumento della longevità e il divario generazionale

Se foste nati uomini di Neanderthal, su per giù 50.000 anni fa, non solo sareste appartenuti a una specie che, secondo le stime, a quel punto della sua evoluzione contava al massimo 25.000 individui, ma vi sarebbe servita una straordinaria dose di fortuna per vivere fino all’allora “veneranda” età di quarant’anni. La cosa potrebbe non suonare poi così strana, se pensiamo che, a differenza di noi esseri umani privilegiati di oggi, le “tecnologie” dell’epoca non isolavano più di tanto i membri della specie Homo neanderthalensis dai capricci della natura. Molto più allarmante invece è pensare che, nel 1900 d.C., l’aspettativa di vita media alla nascita per un membro della nostra specie Homo sapiens era stimata a meno di 32 anni. Naturalmente questa cifra varia notevolmente tra le società del mondo e continua a essere particolarmente influenzata da tassi di mortalità infantile talvolta spaventosamente elevati. Resta comunque il fatto che, in molte società della nostra specie a lenta maturazione, prima del XX secolo difficilmente le generazioni si sovrapponevano più del tempo minimo necessario a ciascuna coorte di persone per crescere la propria prole fino all’età adulta e trasmettere ai figli le conoscenze tecnologiche di base. A sua volta questo significa che, almeno nella sua accezione più astratta, la saggezza umana ha tradizionalmente risieduto in un sottoinsieme piuttosto contenuto di individui che, spesso indipendentemente dalle loro altre qualità personali, hanno avuto la fortuna di poter accumulare esperienza in un arco di vita relativamente lungo. Alcuni antropologi sono partiti da questa considerazione per suggerire che la tendenza delle donne a sopravvivere al proprio periodo riproduttivo (e a quello degli uomini) implica un “effetto nonna” che ha assunto un’importanza significativa nell’evoluzione umana, in quanto le cacciatrici-raccoglitrici in età post-riproduttiva sono subentrate in molte funzioni economiche alle donne più giovani, consentendo a queste ultime di prendersi cura di un maggior numero di figli.

Secondo la teoria dell’antropologo Robin Dunbar, la più grande unità sociale umana all’interno della quale i comportamenti possono essere regolati dalla semplice pressione tra pari si aggira intorno ai 150 individui. Al di là di questo limite, per far funzionare la società senza troppi intoppi servono regole esplicite – e spesso pene draconiane per chi le viola. Ma sulla scia del passaggio da uno stile di vita nomade a uno stanziale – che ha iniziato a cambiare radicalmente la natura stessa dell’esistenza umana circa 12.000 anni fa (un’epoca in cui si stima che la Terra fosse abitata solo da 1-5 milioni di persone) – pochi di noi hanno vissuto in società che non superano ampiamente il “numero di Dunbar”. Pertanto è ovvio che le circostanze abbiano imposto l’introduzione di controlli sociali invasivi, che per la maggior parte del lungo periodo di evoluzione della specie umana erano stati superflui. La pronta comparsa di tali meccanismi dimostra con assoluta chiarezza l’impareggiabile flessibilità delle risposte comportamentali umane alle nuove situazioni.

La sorprendente espansione della popolazione umana in seguito alla rivoluzione agricola è stata dovuta a fattori economici e pragmatici che richiedevano più manodopera per coltivare i campi e che consentivano a ogni donna di occuparsi di più figli. Al contrario, la recente e strabiliante inflessione verso l’alto della popolazione mondiale – da 1,6 miliardi di persone nel 1900 a circa 8 miliardi oggi – è più strettamente legata all’inarrestabile incremento dell’aspettativa di vita media, ascrivibile a sua volta ai progressi nei servizi igienici, nella medicina e nella produttività agricola. A quanto pare, questi progressi non hanno allungato la durata massima della vita umana, che si conferma piuttosto stabile intorno ai 120 anni, ma hanno fatto sì che oggi una persona media viva sostanzialmente più a lungo dei suoi recenti antenati. E forse il risultato più stupefacente di questo cambiamento è che, come riportato dalle Nazioni Unite, ultimamente il numero di centenari a livello mondiale ha subito un’impennata, passando da circa 150.000 all’inizio del millennio a quasi 600.000 nel 2020. Secondo una stima, nei prossimi decenni metà della popolazione umana potrebbe raggiungere i cent’anni; se proseguirà nel tempo, un tale aumento della longevità media avrà enormi implicazioni demografiche.

Tra queste rientra il fatto che, per la prima volta, il cittadino medio del mondo sviluppato avrà ottime possibilità di vivere abbastanza a lungo da conoscere e accompagnare nella crescita i propri bis- e persino trisnipoti. Resta da vedere fino a che punto queste future generazioni sovrapposte faranno parte del medesimo nucleo familiare. Infatti, se in passato la stragrande maggioranza dei figli in età matura nelle società economicamente avanzate tendeva a lasciare la casa di famiglia il prima possibile, di recente l’aumento vertiginoso dei costi degli alloggi ha determinato un brusco arresto di questa tendenza. Altrettanto incerti sono i dati demografici delle future famiglie multigenerazionali, in quanto oggi le persone si sposano in età più avanzata (e anzi, molto spesso non si sposano affatto) e fanno meno figli. In tutto il mondo sviluppato, la donna media partorisce oggi nel corso della sua vita 1,7 figli: meno del tasso di sostituzione e in calo rispetto ai 2,7 figli nel 1970. A prescindere dal modo in cui queste tendenze si manifesteranno, è chiaro che in futuro ci saranno più generazioni a occuparsi dei bambini più piccoli della famiglia; inoltre, esistono già prove che dimostrano come, nelle unità sociali multigenerazionali, l’aiuto dei nonni vada davvero a vantaggio dei nipoti. Tale vantaggio non risiede solo nel supporto relativo agli aspetti più formali dell’istruzione, ma anche nella trasmissione informale dell’esperienza personale e della tradizione culturale: un beneficio sociale intangibile ma certamente prezioso.

Ma con questa crescente complessità generazionale, le famiglie tenderanno ad avvicinarsi o piuttosto ad allontanarsi? Ogni genitore sa bene che il “gap generazionale” è un fenomeno reale che si sviluppa nel momento in cui ogni generazione cerca di distinguersi da quella che l’ha preceduta; si tratta di una forma di divergenza che tende a essere esacerbata dal contatto diretto tra le generazioni. A causa di questo effetto di allontanamento, è possibile che la coesistenza di più generazioni nello stesso nucleo familiare – o anche solo a breve distanza – possa accelerare l’emergere di disparità culturali generazionali nelle preferenze alimentari, nell’arte, nella politica, nell’espressione linguistica e in una miriade di altre caratteristiche, attraverso un “effetto di irreversibilità” che farà permanere tali differenze. All’interno delle varie culture, questa evoluzione unidirezionale potrebbe alimentare l’espressione della disaffezione intergenerazionale, come la disillusione oggi ampiamente diffusa fra i membri della Generazione Z.

Non è inoltre da escludere che tali meccanismi di allontanamento operino in modo diverso da una cultura all’altra, accelerando le divergenze nelle preferenze culturali in diverse parti del mondo. Tuttavia, le enormi incertezze che caratterizzano l’esperimento umano in corso sono tali che la diffusione e la democratizzazione delle tecnologie condivise potrebbero invece concorrere ad avvicinare le culture del pianeta.

Parallelamente al prolungamento della longevità, come abbiamo già notato, l’aumento del benessere ha determinato un calo dei tassi di fertilità in tutto il mondo sviluppato, e anche oltre. Poiché nascono meno bambini e le persone vivono più a lungo, è evidente che, perché le società umane e le economie che le sostengono possano continuare a funzionare in modo efficace, la gente dovrà lavorare più a lungo prima di poter andare in pensione, anche se il conseguente aumento della vita lavorativa sarà inevitabilmente percepito dalle generazioni più giovani come una privazione dei benefici di cui hanno goduto quelle più anziane. Anche in questo caso, è palese il potenziale di attrito intergenerazionale, sebbene una possibile conseguenza interessante dell’allungamento della vita lavorativa sia che le donne dovranno dedicare meno anni della carriera complessiva alla cura dei figli e potrebbero quindi diventare più competitive sia nell’economia che nella società in generale. È stato anche suggerito che, in un mondo attualmente ossessionato dal “breve termine”, una vita lavorativa più lunga potrebbe alimentare la preoccupazione per il “lungo termine”, ovvero per il periodo in cui dovranno vivere tutte le generazioni future. Non resta che sperare.

La nostra specie Homo sapiens è giovane e la documentazione archeologica indica che le ineguagliate qualità cognitive che la contraddistinguono sono state acquisite piuttosto di recente e molto rapidamente. Questo a sua volta lascia intendere che l’Homo sapiens non ha avuto possibilità di ottimizzarsi tramite la selezione naturale, come dimostra la ben nota, seppur scomoda, coesistenza nell’essere umano moderno di sorprendenti capacità razionali e comportamenti individuali spesso bizzarri e autodistruttivi. È evidente che la nostra specie umana è un esperimento naturale che non solo non incontra precedenti nell’intera storia della vita sulla Terra, ma nella migliore delle ipotesi, ha anche dato luogo a quello che viene benevolmente descritto come un “lavoro in corso”. Poiché la messa a punto biologica può avvenire solo in popolazioni piccole e isolate (l’esatto contrario della nostra demografia attuale), purtroppo non c’è speranza che l’evoluzione arrivi su un cavallo bianco e ci salvi dalle nostre follie. In compenso, negli ultimi centomila anni circa la storia dell’umanità è stata dominata dall’intensa esplorazione di una capacità culturale di innovazione del tutto inedita. Non c’è quindi motivo di temere un imminente esaurimento di questa grande capacità, che sottolinea invece l’enorme potenziale a disposizione della specie umana per far fronte a qualsiasi nuova circostanza in cui potrebbe ritrovarsi per via di incompatibilità come quella intergenerazionale.