Gli autori
Coupland
E tu in chi ti identifichi?
Il modo in cui ci si identifica è sempre stato un bel problema. Alla fine degli anni ‘80, non mi piaceva affatto essere classificato come un Baby Boomer e allora mi sono inventato una soluzione. Il mio romanzo d’esordio, pubblicato quasi 35 anni fa, s’intitolava “Generation X: Tales for an Accelerated Culture”, ovvero “Generazione X: racconti per una cultura accelerata”. Perché “accelerata”? Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 sembrava che la storia stesse finalmente uscendo da una sorta di “sindrome del chiavistello”, un’immobilità pervasiva e cosciente, ma c’era un nuovo gruppo di giovani che ovviamente non rientrava in nessuna delle categorie preesistenti.
Il falso presupposto dell’omologazione umana è un elemento essenziale nelle discussioni generazionali. È stato divertente vedere come le stesse etichette velenose che erano state affibbiate alla Generazione X sono tornate buone anche per i Millennial (Gen Y) e la Generazione Z: "lamentosi, pigri, buoni a nulla” e chi più ne ha, più ne metta. Credo che questo tipo di insulti generazionali sia in realtà insito nel comportamento umano. A loro tempo, anche i Baby Boomer erano stati presi di mira.
A tre decenni dalla nascita della Generazione X, cosa è cambiato? Beh, con i Millennial ormai adulti, sotto la lente dell’antropologia popolare è finita la sensibilità della Generazione Z. Gli aspetti che diventano emblematici di un’intera generazione sono spesso inconsapevoli: per la Gen X, la camicia di flanella; per i Millennial l’avocado toast, mentre per la Gen Z il disprezzo dell’avocado toast e dei jeans skinny.
Oggi mi chiedo fino a che punto quella che chiamiamo “generazione” non sia semplicemente una questione di esposizione di una determinata coorte temporale alla tecnologia durante il cablaggio neuronale pre-adolescenziale e il fatto di aver vissuto specifici cicli finanziari globali.
Cosa riserverà il futuro? I bambini che hanno studiato su Zoom durante i lockdown per la pandemia di COVID-19 sono stati definiti “Generazione C”. Poi ci sono i cosiddetti “Ozempic babies”, bambini nati da gravidanze inattese dovute all’interferenza del farmaco Ozempic con gli anticoncezionali orali. La prima generazione totalmente interconnessa con l’esistenza dell’intelligenza artificiale si diplomerà nel 2030: ‘Generazione AI?
Non ho più un lavoro fisso dal 1988. Sto ancora cercando di riprendermi dallo shock. A volte mi sveglio e penso: “Oh mio Dio, non ho un lavoro”. A trent’anni bisognerebbe aver già capito cosa fare della propria vita, mettersi il cuore in pace e andare avanti senza farsi troppi problemi, cosa che all’epoca più o meno valeva anche per me. Tuttavia, da quando ho pubblicato “Generazione X” – cioè due mesi dopo il mio trentesimo compleanno – la mia vita è diventata il mio unico mestiere. A chiunque mi abbia chiesto se la Generazione X sia esistita veramente, non ho mai dato grandi risposte. Per cavarmela, ho sempre detto che se all’epoca uno era fan dei Talking Heads, allora probabilmente faceva parte della Gen X. I Baby Boomer avevano Forrest Gump e “Sugar Pie, Honey Bunch” – e buon per loro, che ognuno si goda la sua generazione come gli pare! – ma io di certo non volevo rientrarci. L’intero scopo della Gen X è stato opporsi all’ingresso forzato nel Baby Boomerdom contro ogni loro desiderio. I Millennial sono più clementi della Gen X perché i Baby Boomer sono i loro genitori. I Millenial fungono da specchio e ombra, offrendo ai genitori un canale in più, gratis, con cui mettersi in discussione e osservare se stessi. Da un punto di vista demografico, i Millennial sono davvero una generazione, mentre la Gen X è solo una psicografica. I Millennial non percepiscono il lavoro come una garanzia di sicurezza a lungo termine – e questa è una profonda differenza. A un certo punto l’idea del posto fisso, di un solo lavoro per tutta la vita si è disintegrata. Ora nessuno si aspetta un impiego a vita. La Generazione Z si sta chiedendo quali competenze lavorative siano veramente a prova di futuro in un mondo che punta dritto verso l’automazione totale.
Il lavoro come lo conosciamo non esisterà più, perché le tecnologie basate sul cloud e le velocità di download sempre più elevate stanno rendendo l’ufficio obsoleto. Le nostre giornate lavorative sono sempre più intervallate da attività domestiche e di svago. Tutte le generazioni dovranno imparare a adattarsi a un’agenda giornaliera fatta all’impronta, il che rappresenterà una sfida psicologica per chi preferisce un’organizzazione strutturata. In futuro non ci sarà più il classico orario di lavoro ‘dalle nove alle cinque’. Piuttosto l’intera giornata comprenderà anche altri aspetti della quotidianità. La programmazione diventerà libertà. Proprio come la rivoluzione industriale ha portato alla creazione del weekend come pausa per riposare, il cloud sta modificando i nostri orari di lavoro. In futuro, ogni giorno della settimana sarà un mercoledì. Non ci saranno più fine settimana: sarà un unico flusso regolare. Vorrei poter dire che non ci saranno nemmeno più le riunioni, ma no, le riunioni ci saranno per sempre.
Le persone vogliono davvero un lavoro-lavoro? No, ma per quanto alla maggior parte di noi piaccia l’idea di avere del tempo libero, avere a che fare con l’idea di riempirlo è straziante. Non c’è più bisogno di memorizzare intere rubriche di numeri di telefono o le indicazioni stradali dall’aeroporto. Perché disturbarsi a ricordare le cose? Il nostro cervello non ne ha più bisogno. Il presente e il futuro convivono. Credo che questo sia uno dei cambiamenti neurologici più profondi nella storia dell’umanità: tutte le generazioni si sono ormai trasformate in Millennial.
Pensavo che Internet fosse una metafora della vita; ora invece credo che la vita sia una metafora di Internet. Ero in Cina a fare ricerche per un libro in una fabbrica di router nella periferia di Shanghai e ho incontrato un ragazzo, un certo Peter. Già il fatto che gli abbiano dato un nome inglese è una grande spaccatura rispetto al passato. Sulla scrivania del suo ufficio campeggiava una foto del figlio – avrà avuto 7 o 8 anni. Al che gli ho chiesto: «Che differenza c’è fra lui alla sua età e te a quell’età?» E lui ha risposto: «Semplice, lui sa che Internet è il mondo reale». Forse c’è anche una iGen?
Gli esseri umani non sono stati programmati per il progresso – forse per un po’ di cambiamento e adattabilità qua e là, ma niente a che vedere con ciò che le generazioni di oggi che lavorano e convivono insieme stanno collettivamente affrontando. Nessun animale è concepito in questo modo. Fino a qualche tempo fa vivevamo in caverne e capanne e pensavamo che i nostri pronipoti avrebbero vissuto in una caverna o capanna identica, che la loro vita non sarebbe stata in alcun modo diversa dalla nostra.
Non credo che stare sempre attaccati ai dispositivi tecnologici sia un indicatore di isolamento sociale. Anzi. A Manhattan ovunque si guardi circa una persona su tre utilizza un dispositivo. Alcuni dicono che è un male perché impedisce di vivere “nel momento”: secondo me invece è una cosa bella, perché è la prova tangibile che le persone hanno bisogno e vogliono stare a contatto con gli altri in ogni modo possibile. Una volta che ci si abitua a una certa connessione online non c’è modo di tornare indietro. Negli anni ‘80 ho vissuto e lavorato in Giappone durante l’ascesa di Issey Miyake e Rei Kawakubo. Il Paese aveva ritrovato la sua voce, emersa dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Ricordo un’intervista in cui Miyake diceva che per lui l’unico modo di lavorare e andare avanti era guardare al futuro, perché da bambino aveva visto il mondo andare in fiamme e non voleva avere nulla a che fare con un mondo in grado di fare una cosa del genere a se stesso. Mi è sempre sembrato un commento intelligente. Il passato ci sarà sempre, ma il futuro esiste proprio per permetterci di fare meglio.
Oggi viviamo in un’epoca in cui i più anziani (Baby Boomer, Gen X, Gen Y) vengono spogliati delle nozioni romantiche di identità pre-esistenti, per essere più o meno involontariamente riconfigurati come “unità umane atomizzate”. I giovani (Gen Z), invece, sono unità umane atomizzate fin dalla culla. Può suonare triste, ma non è detto che lo sia. È semplicemente una novità e, per la maggior parte delle persone nel mondo, unirsi elettronicamente al resto dell’umanità è un avanzamento enorme, un vero e proprio upgrade. Ma non sono solo le persone ad essere riorganizzate e riformattate. Tutte le forme di collettività vengono atomizzate e ricollegate in nuove modalità: paesi, religioni, università e imprese. Forse ci stiamo trasformando tutti in Gen Z.
I giovani hanno sempre avuto l’impulso a ribellarsi, eppure si ribellano sempre al punto da diventare incredibilmente omogenei. Voler dimenticare del tutto la ribellione e voler essere come gli altri è una cosa nuova, che non è stata calata dall’alto come in uno stato stalinista: la Gen Z se l’è autoimposto in un moto collettivo. In effetti è piuttosto sconvolgente.
Ho quasi 62 anni e mezzo e in questi giorni non sento più di identificarmi come essere umano. Sono diventato un’app. Sono un filtro per il modo in cui vivo il mondo. Sono nato nel XX secolo, in un momento specifico della storia dell’umanità in cui il mio cervello veniva esposto alla televisione, al cinema, alla musica, alla letteratura e poi, a partire dalla fine degli anni ‘80, alle tecnologie digitali. Ora mi vedo come una app: tra i miei compiti c’è quello di raccontare la vecchia era alla nuova era, ma non c’è niente di più micro-umiliante che fare un riferimento alla Famiglia Brady e sentire piombare il silenzio in sala. Le generazioni sono oggi molto più unite o divise da punti di riferimento sentimentali rispetto al momento in cui sono nate.
Mi chiedo a che punto le persone smettono di essere persone, il processo esattamente inverso di guardare i neonati diventare adulti. Oggi ho a che fare molto di più con gli anziani, i Baby Boomer, e vivo nel terrore che un giorno qualcuno a me caro possa non ricordarsi più chi è. Forse è così anche per le generazioni. Non sappiamo quando finisce una generazione e inizia la successiva. Cerchiamo di prevedere i piaceri e le difficoltà che si dovranno affrontare, ma sono le conseguenze non intenzionali del presente a dettare il futuro.
A tutte le generazioni, quindi, ecco una citazione di Mike Brady: “Da soli possiamo spostare un secchio. Ma insieme possiamo prosciugare fiumi”. Mike Brady – pronto? C’è qualcuno? Pronto?