Progetto editoriale

Gli autori

di
Telmo
Pievani
Telmo Pievani
Evoluzionista, filosofo della scienza, saggista, insegna Filosofia delle Scienze Biologiche nel Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova ed è visiting scientist presso l’American Museum of Natural History di New York. Dal 2017 al 2019 è stato Presidente della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica. Autore di 346 pubblicazioni, tradotte in molte lingue, i suoi libri più recenti sono: Imperfezione (Cortina, 2019); Finitudine (Cortina, 2020); Serendipità (Cortina, 2021); La natura è più grande di noi (Solferino, 2022). Socio di importanti società scientifiche e dell’Editorial Board di riviste internazionali, dirige i portali Pikaia e Il Bo LIVE. Vincitore di 12 premi, autore di libri anche per bambini sull’evoluzione, insieme alla Banda Osiris, al collettivo “Deproducers” e a Marco Paolini è artefice di progetti teatrali e musicali a tema scientifico. Collabora con Il Corriere della Sera, con la RAI e con le riviste Le Scienze, Micromega e L’Indice dei Libri.

Ottomila generazioni

Siamo una specie giovane. Homo sapiens ha fatto la sua comparsa intorno a duecento millenni fa in Africa. Sappiamo che in passato l’aspettativa di vita era molto inferiore a oggi. Difficilmente un cacciatore e raccoglitore del Paleolitico superava i 50-55 anni. Andò persino peggio nelle prime fasi della transizione neolitica, quando la dieta divenne più povera e il contatto con gli animali domesticati portò nuove malattie. I primi agricoltori e allevatori arrivavano raramente ai 45 anni. Il progresso conta molte eccezioni. Al netto di queste variazioni (agli inizi dell’Ottocento l’aspettativa di vita era ancora inferiore ai 40 anni nella maggior parte del mondo, soprattutto a causa della mortalità infantile), poniamo che una singola generazione umana copra mediamente 25 anni. Questo significa che da quando siamo nati in Africa sono passate 8000 generazioni. Non una di più. Si tratta di 8000 passaggi di madre in figlio, o se preferite di 4000 staffette da nonni a nipoti. Pensiamo ai nostri nonni, poi ai nonni dei nonni e così via: dopo 4000 nonni siamo già alla sorgente iniziale della nostra specie. Secondo i genetisti, nel corso di queste 8000 generazioni si sono succeduti sulla Terra circa 107 miliardi di esseri umani, compresi gli attuali otto. Non uno di più. Per certi aspetti, è commovente. Sul terzo pianeta del sistema solare, che visto da lontano è un granello di sabbia sperduto nel gelo cosmico, tutte le grandi imprese e malefatte degli esseri umani, tutte le civiltà, le guerre, gli imperi, i poemi sacri, le magnifiche città, le gesta eroiche e le codardie, i re e i plebei, i santi e i peccatori, tutti gli inventori ed esploratori, ogni coppia innamorata, le speranze e aspettative dei giovani, le preoccupazioni di tutte le madri del mondo, ebbene questa palpitante umanità è stata sin qui rappresentata soltanto da 107 miliardi di singole esistenze. Di pochissime ricorderemo qualcosa, da Giulio Cesare a Napoleone. Tutte le altre sono perse per sempre, come lacrime nella pioggia.

L’evoluzione è una grande staffetta. Questo è il primo messaggio delle generazioni umane. Il gruppo originario di pionieri africani che diede inizio alla storia di Homo sapiens era composto da non più di 80-100mila individui. Come una città medio piccola di oggi. Andando indietro nelle generazioni, due esseri umani presi a caso nel mondo - un europeo e un aborigeno australiano, un coreano e un sudafricano, qualsiasi coppia - condividono sicuramente un antenato comune vissuto in quel gruppo. Siamo tutti fratelli, anzi cugini stretti. La popolazione fondatrice recava in sé un pacchetto di variazioni genetiche che poi, come il testimone di una staffetta appunto, è transitato da una generazione alla successiva, sino a oggi. Il DNA delle batterie delle cellule, cioè di tutti i nostri mitocondri, si trasmette per via matrilineare e deriva addirittura da un’unica matrice femminile africana ancestrale. Ecco perché tutti gli esseri umani condividono più del 99,98% del loro DNA. Ed ecco perché non possono esistere le “razze umane”: la variazione genetica umana è troppo bassa, si distribuisce in modo continuo sulla superficie terrestre ed è quasi totalmente individuale, più che connessa alle origini geografiche. Siamo troppo giovani come specie e troppo promiscui: le razze non hanno fatto in tempo a formarsi. Eppure, da quel manipolo di africani che poi migrò in Eurasia, in Australia e nelle Americhe scaturì un meraviglioso ventaglio di migliaia di popoli differenti: un albero genealogico di diversità culturali, linguistiche, religiose. La matrice fondante dell’evoluzione è l’unità nella diversità. Il DNA passa da una generazione alla successiva come un filo di Arianna, che si snoda ininterrotto e ci unisce tutti attraverso ciascuna delle nostre esistenze. Nulla è andato perso.

Ora avviciniamoci a larghe falcate al presente. I primi Homo sapiens arrivarono in Europa 1700 generazioni fa: avevano la pelle scura e spesso gli occhi chiari. Da quando abbiamo inventato agricoltura e allevamento - in molteplici centri di origine tra Mezzaluna fertile, Cina, Nuova Guinea, Africa e Americhe – sono passate meno di 500 generazioni. Dall’invenzione della scrittura, 200 generazioni. La globalizzazione colonialista europea è cominciata 20 generazioni fa. La rivoluzione industriale è faccenda per nove generazioni. La Grande Accelerazione, cioè l’impennata di tutte le curve di impatto ambientale dell’umanità (crescita demografica, emissioni di gas serra, riduzione della biodiversità, consumo di acqua e suolo, produzione di cementi, asfalti e plastiche, le prime bombe atomiche, e così via), è iniziata nel 1945, tre generazioni fa. E qui è successo qualcosa di inedito, nella storia umana e naturale. Si chiama Antropocene. Agli inizi del Novecento, il peso di tutti gli artefatti umani - cioè degli oggetti d’uso della nostra operosa quotidianità - era pari al 3% della biomassa terrestre, ovvero di tutti i microbi, le piante e gli animali messi assieme. Nel 2020 la “massa antropogenica” ha eguagliato la biomassa. Non era mai accaduto nelle 8000 generazioni precedenti. Agli inizi del Novecento eravamo 1,6 miliardi e l’aspettativa di vita arrivava ai 50 anni solo escludendo dal calcolo la mortalità infantile. Da novembre 2023 siamo otto miliardi e l’aspettativa di vita in alcuni paesi ha superato gli 80 anni e in molti altri i 70 (anche se in diversi paesi africani è ancora poco sopra i 50). Quindi la Grande Accelerazione coincide anche con un altro inedito assoluto: per la prima volta cinque generazioni convivono, da chi è nato fra le due guerre mondiali a chi ha visto la luce negli anni venti del Ventunesimo Secolo. La novità non è solo quantitativa. La convivenza tra nonni e nipoti, quindi tre generazioni, è diffusa in natura. Nell’evoluzione del genere Homo, intorno a un milione di anni fa, negli antenati comuni tra Homo sapiens e le altre specie umane con le quali abbiamo convissuto (i Neanderthal e i Denisovani), emerse un nuovo comportamento sociale. La traccia fossile è labile ma cruciale: individui “anziani”, per quel periodo, morti anche dopo i 55 anni, sono stati trovati con i segni di chi era sopravvissuto per anni senza denti. I compagni del gruppo trituravano o masticavano i cibi per loro e glieli davano, ogni giorno. Non lasciare morire i più deboli fu una rivoluzione. Il segreto dell’evoluzione umana è la cooperazione.

Una vulgata semplicistica della teoria darwiniana prevedeva che gli individui più vecchi, dopo aver assolto al compito della riproduzione, venissero “abbandonati” dalla selezione naturale. Ma non si teneva conto di un fatto: i nonni possono contribuire all’accudimento dei nipoti, sgravando i genitori impegnati nei compiti di sopravvivenza, e soprattutto sono portatori di un bagaglio di esperienze di caccia, di conoscenze ambientali e di abilità manuali preziosissimo da tramandare. Ecco perché curare i vecchi, oltre che un obbligo affettivo e un atto di solidarietà, fu un vantaggio essenziale. Anche tra le orche e altri cetacei le nonne educano i nipoti. Questo processo implica che la generazione precedente lasci alla successiva una dote positiva, ma la Grande Accelerazione sta cambiando le carte in tavola. Nelle ultime tre generazioni abbiamo depauperato a tal punto l’ambiente che adesso lasciamo ai nostri successori tre eredità: i nostri geni, come sempre; le nostre idee e la cultura; ma anche le modificazioni ecologiche da noi introdotte e alle quali i posteri dovranno adattarsi. La Grande Accelerazione per un po’ ha avuto un bilancio positivo: più ricchezza e benessere per una parte dell’umanità. Povertà, fame e mortalità infantile si sono ridotte, in termini assoluti, e l’aspettativa di vita è cresciuta grazie ai progressi della medicina, del welfare, dell’igiene, dell’alimentazione. Ma c’era un prezzo nascosto, in quella crescita.

Homo sapiens è sempre stata una specie ambivalente. Dove arrivava, cambiava il mondo. Poi doveva adattarsi al mondo che aveva cambiato. Il gioco ha funzionato bene, ma adesso rischia di incepparsi. Non era mai successo che, in quelle cinque generazioni che convivono, la terza cominciasse a trasmettere alla quarta e alla quinta, anziché una dote di conoscenze e di risorse, un debito ambientale. La transizione ecologica sta infatti procedendo troppo lentamente e questo significa che i nostri figli e nipoti dovranno pagare sempre di più per adattarsi alla crisi ambientale. Quando una specie, a causa del suo stesso successo, comincia a trasferire alla discendenza un peso si parla di “trappola evolutiva”. Noi ci stiamo finendo dentro. Il vantaggio, rispetto ad altre specie che si sono estinte a causa di cambiamenti ambientali troppo drastici, è doppio: innanzitutto, noi ne siamo la causa, non un asteroide o i vulcani, e quindi possiamo invertire la rotta, se lo vogliamo; in secondo luogo, a differenza dei dinosauri noi siamo consapevoli di quanto sta accadendo, non potremo dire di essere stati sorpresi da un bolide caduto dal cielo. Del resto, la responsabilità verso le generazioni future ora è entrata anche nella Costituzione italiana, dopo che nel 2022 è stata approvata la modifica dell’Articolo 9 (è la prima volta dalla sua promulgazione, cioè all’inizio della Grande Accelerazione, tre generazioni fa, che viene cambiato uno degli articoli fondamentali) e dell’Articolo 41. La Carta ora prescrive la tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità “anche nell’interesse delle future generazioni”. Mossa lungimirante e coraggiosa, visto che le generazioni del futuro ancora non esistono. Nel suo libro “Il tempo e l’acqua”, lo scrittore islandese Andri Magnason racconta di un dialogo tra sua figlia, che ha dieci anni ed è nata nel 2008, e la sua bisnonna di 94 anni. La bimba calcola l’anno in cui avrà la stessa età della sua bisnonna: il 2102. Poi calcola quando avrà 94 anni la sua pronipote, nata nel 2092: il 2186. Quindi la figlia di Magnason ha conosciuto la sua bisnonna, nata nel 1924, e potrà forse conoscere la sua pronipote, nel 2186. Un arco di tempo di 262 anni che, dice Magnason alla figlia, “è il tuo tempo e anche il tempo di qualcuno che conoscerai e che amerai, il tempo che tu creerai. Puoi condizionare il futuro fino al 2186”. Sì, i nostri figli potranno, se saranno abbastanza visionari. I costruttori delle antiche cattedrali sapevano benissimo che non le avrebbero viste finite. All’inaugurazione avrebbero partecipato i nipoti, non loro. Ma non importa: posero comunque la prima pietra. Ci vuole speranza, che è la forma propulsiva dell’immaginazione di Homo sapiens: pensare che un altro futuro sia possibile. La mitigazione del riscaldamento climatico, la salvaguardia della biodiversità, la lotta alle diseguaglianze globali sono le nostre sfide transgenerazionali. Sono le nostre cattedrali.