Nella nostra fabbrica, anche io e mia sorella usavamo le posate in modo alternativo, ma meno efficace, e a volte provocando danni irreversibili. Conficcavamo le forchette nelle ruote delle macchinine e staccavamo gli arti delle bambole con i coltelli da burro. Avremmo potuto usare le nostre dita, ma la presenza di strumenti di lavoro, nella nostra testa, rendeva l’impresa più realistica. Dove avevamo preso l’idea per questo gioco? Non lo so. Probabilmente da un cartone animato ormai dimenticato, in cui forse c’entravano gli elfi del laboratorio di Babbo Natale. Non eravamo mai state all’interno di una vera fabbrica. Nostro padre lavorava per le Nazioni Unite, dietro la scrivania, in diversi uffici in diverse nazioni – Tanzania, Italia, Etiopia, Uganda. Giocavamo anche al suo di lavoro, imitandolo, alzando la cornetta del nostro telefono rosso giocattolo e dicendo, con tono sicuro: “Ho inviato un Telex al quartier generale”.
Erano gli anni Ottanta. A quel tempo non sapevamo cosa fosse un Telex e ancora oggi non lo so davvero. Ma anche se sapevo che l’organizzazione per cui lavorava mio padre consegnava cibo alle persone coinvolte in disastri naturali o causati dall’uomo, non riuscivo a comprenderne il funzionamento. Mio padre passava molto tempo a leggere, a scrivere, a usare la calcolatrice.
Volava a Ginevra o a Dacca per partecipare a riunioni o missioni che per me e mia sorella erano troppo misteriose per poter essere rimesse in scena. Di solito, tornava con cioccolatini del duty free. A bassa voce, alla mia matrigna raccontava dei campi profughi e dei ribelli, ma se si accorgeva che stavo origliando, smetteva di parlare.
Per questo, la fabbrica era un gioco migliore. Era tattile e giocarci produceva conseguenze reali, che io e mia sorella potevamo vedere con i nostri occhi e con cui dovevamo convivere. Potevamo riattaccare l’elica all’elicottero e avrebbe continuato a girare? I bambolotti stavano meglio o peggio con le teste scambiate? A volte, quando spaccavamo troppe cose e avevamo i rimorsi, trasformavamo la nostra fabbrica in uno spazio di invenzione, utilizzando carta, plastilina, filo, monete, buste di plastica, nastri per capelli, bucce d’arancia – qualsiasi cosa avessimo a portata di mano. Lavoravamo in modo frenetico, attento, con poca o nessuna visione iniziale.
“Guarda cosa stiamo facendo”, chiedevamo a qualsiasi adulto passasse di lì – nostro padre, la nostra matrigna, i loro amici. Osservavano le fragili mostruosità che avevamo creato.
“Oh, che carino”, mentivano. “Cos’è?”.
Solitamente, dato che ero più grande di quattordici mesi, facevo io da portavoce. Inventavo qualcosa sul momento: una macchina del tempo; un hotel per le fate; un acchiappadraghi; un robot in grado di trasformare le zucchine (che entrambe detestavamo) in zucchero filato.
Appena pronunciate, quelle parole diventavano abbastanza credibili perché potessimo vedere il potenziale, e persino la bellezza, di quello che avevamo iniziato. Ci rimettevamo a lavoro avendo un obiettivo. Non conoscevamo questa parola, ma adesso direi che improvvisavamo. Grazie a questi giochi, abbiamo imparato a fidarci delle nostre intuizioni e a provare, con le nostre mani, a realizzare idee e sogni che non sapevamo di avere. E, di sicuro, abbiamo imparato a fallire. Abbiamo imparato a comprendere che il fallimento è un passo importante, inevitabile. Nessuna delle cose che abbiamo inventato ha mai funzionato. Abbiamo rovinato più che rimodellato. Ma era un allenamento. Un giorno, quando saremmo state più grandi, i nostri procedimenti avrebbero portato a risultati reali. Ci credevamo fermamente.
Mia sorella, crescendo, è diventata una persona che fa arte, ma mai per soldi. “Toglierebbe tutto il divertimento”, dice. Così, per pagare le bollette, fa la cameriera. Nel suo tempo libero, crea gioielli su misura per me e per chi ama. Due anni fa, per il compleanno, mi ha regalato un ritratto a carboncino dei nostri amati nonni, che erano mancati da poco. Ha catturato il luccichìo dello sguardo del nonno e il sorriso abbagliante della nonna. Recentemente, ha realizzato un murale con delle forme bianche e nere sulle pareti di una catapecchia sul retro della casa che ha affittato da poco ad Austin, in Texas, trasformando quello che era un pugno in un occhio in un oggetto di inaspettata eleganza.
Io sono diventata una scrittrice. Mi approccio al lavoro come a una pratica per creare nuove possibilità, e per inventare e trasformare la realtà con le parole, anche se solo in modo temporaneo, anche solo nell’immaginazione.
Lo scorso anno, ho tenuto in mano una copia del mio primo libro. Finalmente, dopo anni di tentativi e fallimenti e altri tentativi, di indefinitezza, ecco qualcosa allo stesso tempo di magico e reale. Ho pensato al giorno in cui avevo aperto un documento vuoto sul mio portatile e scritto la prima frase. Ho pensato agli amici che mi avevano incoraggiato quando mi sentivo incapace di tradurre sulla pagina quello che avevo in testa e stavo considerando l’idea di arrendermi. Ho pensato alla mia agente che ha creduto nel libro e lo ha venduto a una casa editrice, agli editor che mi hanno aiutato nella revisione, ai grafici che hanno disegnato la copertina, ai tipografi, alla distribuzione, al postino che ha consegnato il pacco alla mia porta. Così tante mani hanno fatto la loro parte e poi hanno passato il libro alle mani successive – una specie di catena di montaggio.
Ho scattato una foto del libro col telefono e l’ho spedita a mia sorella. “Guarda cosa ho fatto”, le ho scritto, un’eco delle parole dei nostri giorni alla fabbrica. L’ho ringraziata perché è una delle persone che lo ha reso possibile. Mi ha risposto che era una cosa splendida.
Ho seguito anche le orme di mio padre. Alla scuola di specializzazione ho studiato pianificazione e politiche urbane, e lavoro dedicandomi alla povertà e alla disuguaglianza. Tuttavia, mentre il lavoro di mio padre aveva un impatto a livello mondiale, il mio si concentra sulle città degli Stati Uniti, in cui, a dispetto della ricchezza della nazione, ci sono ancora posti dove troppa gente sopravvive a stento. Ho aiutato le autorità locali a progettare programmi che riguardano istruzione, alloggi e lavoro.
Spesso le persone mi dicono: “Sembra molto interessante, ma cos’è che fai tutto il giorno di preciso?”. Rido e ripeto che faccio telefonate, leggo e scrivo resoconti. Stilo bilanci e aiuto a organizzare programmi di formazione. I risultati di questo lavoro sono molto meno evidenti di ciò che avevo immaginato in tutti quegli anni prima, quando giocavamo alla fabbrica. A volte, mi chiedo se io sia mai riuscita a fare la differenza. Poi, altre volte, mi ricordo che le due carriere che ho scelto non sono così diverse, così separate, e che se non riesco a vedere qualcosa, non vuol dire che sia immaginario o impossibile.
In un recente viaggio a New Orleans, ho trascorso del tempo allo Studio Be, un magazzino di 3.200 metri quadrati che attualmente è la base creativa di Brandan “BMike” Odums, originario della cittadina della Louisiana, il cui lavoro si pone all’intersezione tra arti visive e attivismo. Ero lì per intervistare Odums e molti altri artisti-attivisti provenienti da tutto il paese sulla loro visione del futuro e sui loro sforzi per affrontare disuguaglianza, violenza e razzismo e per promuovere gioia e senso di appartenenza nelle loro comunità. Mi ha colpito quanto per tutti loro fosse evidente la necessità di avere spazi in cui le persone possano riunirsi a immaginare e costruire il futuro in maniera collettiva, senza i limiti del presente. E intendevano costruire sia in senso materiale che immateriale: sapere, sculture, risorse, legami, scuole, speranza, potere, installazioni artistiche, cliniche, colonne sonore, storie, e così via.
Il futuro, sottolineavano, si crea attraverso le scelte che facciamo e ciò che creiamo nel presente. BMike parlava di come a New Orleans l’arte non sia mai un’impresa solitaria. È qualcosa che viene realizzata all’interno e insieme alla comunità – un riferimento a come il jazz e le altre forme di improvvisazioni siano centrali nella cultura della città. “Qui, suoni la tromba nella speranza che il tuo vicino ti senta e magari si unisca a te”, mi ha spiegato. E forse questo vale per tutti i processi vitali. Non avrei potuto giocare alla fabbrica senza mia sorella. Anche se scrivo da sola, sono gli altri a sostenermi. Non riuscivo a comprendere come funzionava il lavoro di mio padre perché immaginavo solo il suo ruolo. Giorno dopo giorno, può essere difficile capire se sto facendo la differenza, ma devo comunque continuare a provarci. Ho fiducia nel fatto che qualcuno riprenderà da dove ho lasciato. Sono solo una delle persone in una schiera, in cui ognuno di noi tenta, fallisce, improvvisa. Lo credo fermamente.
Owusu
Nadia Owusu è una scrittrice e urbanista ghanese e armeno-americana. Il suo primo libro, il memoir Scosse di assestamento, è stato selezionato tra i migliori del 2021 da Time, Vogue, Esquire, The Guardian, NPR e altri. È stato uno dei libri dell’anno più amati dal presidente Barack Obama, è rientrato tra quelli scelti dalla redazione del prestigioso New York Times Book Review e ha ricevuto una candidatura ai Goodreads Choice Award 2021. Nel 2019, Nadia ha ricevuto un Whiting Award. I suoi scritti sono stati pubblicati, o lo saranno a breve, su The New York Times, Granta, The Paris Review Daily, The Guardian, The Wall Street Journal, Slate, Bon Appétit, Travel + Leisure e altri. Nadia ricopre un ruolo dirigenziale presso Frontline Solutions, una società di consulenza che aiuta le organizzazioni per il cambiamento sociale a definire obiettivi, mettere in pratica i progetti e valutarne l’impatto. Vive a Brooklyn.