Pirelli Annual Report 2021

Annual Report 2021
A Beautiful place
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La fabbrica
e la bellezza

di Vito Mancuso

Nel discorso a lode della bellezza messo sulla bocca di un bizzarro personaggio di nome Stepan Trofimovič, Dostoevskij pone l’alternativa tra “Shakespeare o un paio di stivali, Raffaello o il petrolio”1. I primi nomi rappresentano la bellezza, i secondi la fabbrica, e anche da qui si comprende che tra le due realtà il rapporto non è per nulla immediato. Ma è soprattutto l’esperienza a insegnare che si può benissimo realizzare e amministrare una fabbrica senza preoccuparsi per nulla della bellezza. È vero che vi sono fabbriche molto belle, dotate di quel fascino che emettono i metalli uniti ai vetri, costruzioni dalle ampie, luminose e armoniose architetture; è ancora più vero però che anche oggi nel mondo le fabbriche che emanano bellezza sono in netta minoranza. Tra fabbrica e bellezza sembra ci si muova in orizzonti del tutto estranei, universi paralleli mai destinati a incrociarsi: la fabbrica dice interesse, investimenti, profitti; la bellezza dice disinteresse, gratuità, spesa. Tuttavia in questo scritto io sosterrò che il rapporto tra le due realtà è profondo, anzi persino intrinseco, perché fabbrica e bellezza, ovvero economia ed estetica, sono accomunate da un elemento essenziale per entrambe: la materia. E inizio la mia argomentazione chiarendo il concetto di bellezza: che cos’è la bellezza?

Vi sono infinite discussioni al riguardo, concentrate soprattutto sulla disputa se la bellezza sia qualcosa di oggettivo che tutti possono riconoscere o qualcosa di soggettivo che varia in base alle epoche e ai luoghi. Io sono convinto che la bellezza, come il divino, non sia definibile, perché la sua azione specifica è proprio il contrario di definire; equivale, se è lecito un neologismo, a “infinire”: aprire all’infinito. È questo il motivo per cui, se dobbiamo dire cos’è la bellezza, ci mancano le parole e le più intense esperienze estetiche sono cariche di silenzio. L’esperienza estetica è sempre anche un’esperienza estatica. Tuttavia della bellezza noi parliamo in continuazione, e tra le sue molte descrizioni ricordo questa di Platone: “splendore del vero”.2

Anche le fabbriche sono sensibili al vero, all’effettuale, al concreto. Producono, lo fanno usando materiali, e la materia è sempre vera. E chi la usa è sensibile alla sua qualità. Fabbrica e bellezza, estetica ed economia, si incontrano perciò sulla materia, perché anche gli artisti sono strutturalmente sensibili a essa in quanto non c’è arte senza materia. La trasformazione della materia è alla base sia dell’economia sia dell’estetica, genera prodotti e opere d’arte, produttività e splendore.

Splendore viene dal verbo latino splendeo, “splendere, rilucere, brillare”, con un evidente riferimento alla luce: ciò che è splendido è anche necessariamente lucente. La luce appare così come elemento principale della bellezza, che non a caso i medievali chiamavano claritas. La bellezza è il particolare lumen che la materia manifesta, è splendore e amabilità del vero, e in quanto tale segnala la giusta direzione anche della produzione: un prodotto autenticamente bello ha tutte le garanzie per essere anche genuino, affidabile, vero. Lo intuirono per primi gli antichi greci all’inizio della nostra civiltà, stabilendo che il legame tra bellezza e bontà (kalokagathía) è il segnale della perfezione raggiunta. Bontà, infatti, è da intendere anzitutto non in senso etico ma in senso fisico: dice capacità, forza, solidità, operatività, funzionalità. Anche in alcuni dialetti italiani l’aggettivo “buono” significa anzitutto “capace”. Si tratta di valori a cui la fabbrica è molto attenta, ma, se questo vale per i prodotti, non può non valere anche per i luoghi di produzione. Perciò quanto più una fabbrica sarà curata dal punto di vista estetico, tanto più sarà attenta alla qualità della sua produzione e alla bontà dei suoi prodotti. Il legame tra bellezza e fabbrica appare non come un lusso un po’ vezzoso di cui si può fare serenamente a meno, ma come un nesso organico.

Occorre però fare un passo avanti chiedendoci dove nasce la bellezza. Di questa delicata disposizione dell’essere che chiamiamo bellezza io penso che le sorgenti siano principalmente tre: la natura, l’arte, l’essere umano. Qui mi concentro sull’ultima di esse dicendo che la fabbrica non è solo tecnica, è anche umanità: consiste di esseri umani che collaborano a stretto contatto giorno dopo giorno. Perché la fabbrica possa essere un luogo che produce bellezza, occorre quindi che anche gli esseri umani al suo interno lo siano. E quando un essere umano, non in quanto fenomeno naturale ma in quanto “essere umano”, è bello?

Del corpo di cui siamo stati dotati alla nascita nessuno ha merito o demerito, esso deriva dalla natura e in quanto tale appartiene alla prima delle tre sorgenti della bellezza. È piuttosto l’uso della libertà a manifestare l’autentico valore di un essere umano e quindi la sua bellezza peculiare riguarda la coscienza, ovvero l’uso dell’intelligenza e della libertà. Un essere umano è bello in quanto “umano” quando è giusto, buono, intelligente, generoso, coraggioso, leale. La giustizia, la bontà, l’intelligenza, la generosità, il coraggio, la lealtà conferiscono luce al volto di chi le ospita rendendolo bello. La pratica di tali virtù dona quella bellezza speciale, tipicamente umana, che oltrepassa la superficie e raggiunge il cuore e che è l’essenza più vera di ognuno di noi rendendoci “una bella persona”.

La mia tesi quindi è che la bellezza si produce anche in quella fabbrica particolare che è la coscienza: la bellezza ne è il prodotto più prezioso. Se manca questa bellezza interiore, la bellezza della fabbrica, per quanto possa essere curatissima, può finire per risultare distante, fredda, falsa, persino ostile. Perché la fabbrica possa davvero risplendere di autentica bellezza deve essere attraversata dalla bellezza ancora più necessaria dei rapporti umani, degli sguardi, dell’empatia che regola e modula gli scambi interpersonali. Per questo, oltre a curare la bellezza esteriore della fabbrica, gli imprenditori più sapienti sono coloro che si prendono cura anche della sua bellezza interiore, coltivando l’autenticità dei rapporti e la dimensione etica, nei propri collaboratori e prima ancora, ovviamente, in se stessi.

L’ultimo passo di questo mio contributo intende mettere in guardia da quello che forse è il principale rischio che la fabbrica, soprattutto se molto curata dal punto di vista tecnico ed estetico, può correre: l’esaltazione a tal punto della tecnica da eliminare il contatto con la natura e con l’umanità. Per spiegare cosa intendo riprendo un brano del classico taoista Chuang-Tzu risalente a circa ventiquattro secoli fa e scritto in polemica con i confuciani. Vi si racconta che uno dei più illustri discepoli di Confucio di nome Zigong, avendo scorto un vecchio contadino che stava lavorando l’orto sulla riva del fiume in modo poco produttivo, gli disse: “C’è una macchina per fare quello che fai. In un solo giorno puoi irrigare un’area cento volte più grande, con poca fatica e molto maggior risultato. Non ti piacerebbe averla?”. Il contadino prima chiese spiegazioni ulteriori, poi avvampò, rise sarcastico e infine rispose con calma: “Ho udito il mio maestro dire che dove ci sono macchine ci sono problemi meccanici; e dove ci sono problemi meccanici, ci sono menti meccaniche. Quando la mente è meccanica, la semplicità è perduta”. Congedò quindi Zigong con queste parole: “Conosco la macchina di cui parli, ma mi vergognerei di servirmene”.3

Oggi tutti noi sperimentiamo che vi sono macchine assai utili al nostro vivere quotidiano, la stessa fabbrica è una grande macchina composta da numerose macchine, e che spesso produce a sua volta macchine. La proposta di Zigong quindi era tutt’altro che disprezzabile. Ciononostante è altrettanto vero che oggi esistono non poche “menti meccaniche”, e che, nonostante la presenza di molte macchine che ci semplificano la vita sia al lavoro sia nelle nostre case, la semplicità è spesso perduta. Sono quindi parole da ascoltare con attenzione quelle del vecchio contadino. Il contatto tra fabbrica e bellezza, e quindi tra fabbrica e natura da cui la bellezza principalmente deriva, è essenziale per fare in modo che le nostre menti non si riducano a menti meccaniche ma rimangano umane, vale a dire libere e creative.

1 Fëdor Dostoevskij, I demoni, III,1,4 [1873], tr. di Francesca Gori, Garzanti, Milano 200815, p. 521.
2 Cfr. Platone, Fedro, 250 B-D, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 20094, p. 119.
3 Chuang Tzu (Zhuangzi), n. 12, a cura di Augusto Shantena Sabbadini, Urra, Milano 2012, p. 109.

Vito
Mancuso

Vito Mancuso (Carate Brianza, 1962), teologo laico e filosofo, è stato docente alle università San Raffaele di Milano e di Padova. Attualmente insegna al master di Meditazione e Neuroscienze dell’Università di Udine. Ha fondato e dirige a Bologna il “Laboratorio di Etica”. È autore di numerosi saggi su argomenti quali la filosofia di Hegel, le malattie e il dolore, la natura di Dio, l’anima, l’amore, il pensiero, la libertà, le virtù cardinali, il coraggio, la paura, il senso della vita. In un ampio saggio ha presentato in sinossi le figure di Socrate, Buddha, Confucio e Gesù. Il suo pensiero si può complessivamente definire come “filosofia della relazione”. Sulla dimensione estetica ha pubblicato La via della bellezza (Garzanti 2018). L’ultimo libro è La mente innamorata (Garzanti 2022). Dal 2022 è editorialista per La Stampa.