È un proverbio francese che mi piace molto: «Ognuno vede mezzogiorno dalla porta di casa propria». Traduzione: come la nostra percezione dell’ora cambia a seconda del luogo in cui ci troviamo, così il nostro modo di vedere le cose cambia a seconda della nostra situazione personale.
Per dirla in maniera più brutale: vediamo soprattutto i nostri interessi e riteniamo che i problemi più importanti siano i nostri.
Sul piano filosofico, è deludente: avremmo desiderato maggiore altruismo e larghezza di vedute. Sul piano umano, trovo piuttosto rassicurante che ciascuno veda mezzogiorno dalla porta di casa propria. È rassicurante perché è umano, ed è per questo che dall’inizio del lockdown (non avrete pensato seriamente che avremmo parlato d’altro?) ho deciso di scrivere ogni giorno un breve testo su come, in questo periodo, una persona vede mezzogiorno dalla porta di casa propria.
All’inizio lo facevo con persone che conosco, amici ai quali telefono, con cui mi collego via Skype, che sono a Parigi, in campagna, soli oppure con la famiglia o con il partner, che hanno avuto persone che si sono ammalate o sono morte, o che come me sono ancora vergini sotto questo aspetto…
E poi ho cominciato a interrogare i miei vicini di palazzo, e poi qualcuno per strada. Quelli che fanno la coda davanti al supermercato, i senza fissa dimora, i piccoli spacciatori che trafficano sotto le mie finestre… Ho messo insieme così qualche decina di microracconti, non tutti dello stesso interesse, ma va bene, è il mio modo di frequentare questo nuovo genere letterario che è il diario dell’isolamento. Ora, se volete sapere com’è mezzogiorno dalla porta di casa mia e che cosa mi assorbe veramente, la risposta è: un libro. Non l’inizio di un nuovo libro; la sua fine. So perfettamente che al mondo ci sono cose più importanti, ma non ce n’è nessuna più importante per me. Il libro che sto terminando è un libro sullo yoga – del resto è questo il suo titolo: Yoga. È un libro particolare sullo yoga perché parla anche del terrorismo jihadista, della crisi dei rifugiati e di una depressione malinconica per la quale ho passato quattro mesi in un ospedale psichiatrico e subìto quattordici elettroshock. Un libro sullo yoga, dunque, ma possiamo anche dire: un libro che dalla visuale dello yoga racconta cinque anni di una vita. Ero arrivato, con il mio libro, esattamente al momento in cui si comincia a rimettere le virgole nei posti da cui si erano tolte – un segnale inequivocabile: se si continua, si finirà per rovinare il testo invece di migliorarlo.
Avevo promesso di spedire il file definitivo al mio editore a metà aprile, mi ero ripromesso che per metà aprile lo avrei finito qualsiasi cosa accadesse, ma quel che è accaduto è che il 17 marzo in Francia ci siamo ritrovati tutti confinati in casa, e perciò a metà aprile quando, fra una partita a scacchi e l’altra con mia figlia tredicenne (comincia a battermi), apporto le ultime correzioni al libro, sono isolato nel mio appartamento a Parigi.
Ogni volta che apro il file, vengo assalito da una preoccupazione nuova per me. La mia domanda non è tanto: è un buon libro? – questa domanda me la pongo in tempi normali, è una tipica e rassicurante domanda da tempi normali –, ma: non sarà superato? Un libro del mondo di prima, un libro che forse sarebbe stato interessante nel mondo di prima ma che, siccome non include questa cosa enorme che ci è accaduta nel frattempo, rischia di essere, proprio così, superato. Un’impressione del genere io non l’ho mai provata, e credo pure nessun altro. Siamo rimasti tutti basiti davanti al crollo delle Torri Gemelle, quello che fino a oggi era l’avvenimento storico di maggiore portata accaduto nella nostra vita, ma nessuno scrittore, credo, ha pensato che il suo romanzo su un triangolo amoroso o sui primi disinganni della sua infanzia fosse divenuto antiquato dopo l’11 settembre 2001. E allora? Allora, niente: continuo, correggo, do gli ultimi ritocchi al mio libro sullo yoga. Può sembrare una cosa insignificante ma, se lo yoga è ciò che credo, insignificante non è, e non lo è nemmeno cercare di descrivere non tanto la propria piccola vita quanto, attraverso la propria piccola vita, l’aspirazione a essere ciò che si vorrebbe essere e le forze distruttive che vi impediscono di esserlo: la lotta comune, più o meno, a tutti noi. E, così, continuo: è la mia forma di resilienza. Questa mattina, nella mia meticolosa vivisezione del testo sono capitato di nuovo su un brano in cui racconto una cena a casa di un amico, nel dicembre 2014.
Avevamo bevuto parecchio e, al momento dei saluti, sulla porta di casa, avevamo avuto una discussione piuttosto buffa per stabilire se dovevamo stringerci la mano, come avevamo fatto fino a quel momento, o darci un bacio sulla guancia. Ci siamo chiesti quando di preciso, e come, era nata l’abitudine di darsi un bacio sulla guancia fra uomini, abitudine che nella nostra lontana gioventù sarebbe sembrata a entrambi semplicemente ridicola. Alla fine, ci siamo baciati sulla guancia. Un mese dopo, questo amico che si chiamava Bernard Maris è stato ucciso nell’attentato a Charlie Hebdo. E dopo altri cinque anni, nel leggere questo brano sono stato preso da una straziante nostalgia. Perché quel tempo in cui si poteva esitare fra una stretta di mano e un bacio sulla guancia, quel tempo in cui veniva così facile salutarsi nei due sensi del francese embrasser – stringendo l’altro fra le braccia o posando le labbra sulla sua guancia –, siamo sempre di più a temere che sia finito, che non torni più, che anche dopo la fine del lockdown non ci potremo più embrasser.