Pirelli Annual Report 2019 - The Editorial Project

Annual Report 2019
The
Road
Ahead
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The
Road
Ahead

Il bilancio 2019 appena pubblicato si inserisce in quella che è ormai diventata una tradizione decennale, affidando al talento di due grandi scrittori, Emanuele Carrére con la testimonianza “Midi à sa porte” e John Seabrook con il saggio “The Zoom Brigata”, e a 8 tavole del visual artist Selman Hoşgör la visione di “The Road Ahead”, cioè della strada e dei cambiamenti che attendono l’azienda e tutti noi. Ma, soprattutto, è a loro che è stato affidato il tema della resilienza, quella capacità che consente non solo di affrontare i cambiamenti, ma di trasformarli in opportunità, così come Pirelli ha fatto nei suoi 150 anni di vita, mantenendo da un lato una propria forte identità, ma dall’altro adattando costantemente il proprio modello di business, i propri prodotti e i propri servizi all’evoluzione del contesto in cui opera.
Nata prima dell’emergenza Covid-19, l’idea della resilienza alla base del progetto è diventata un elemento di riflessione ancor maggiore di fronte ai profondi cambiamenti imposti dalla pandemia che, infatti, trova spazio in entrambi gli scritti dei due autori.

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The
Visual
Project

Selman Hosgör è un visual artist multidisciplinare basato a Londra. Ha completato i suoi studi in graphic design presso la Kadir Has University di Istanbul. Ha successivamente frequentato il Central Saint Martins di Londra, presso il quale ha completato un corso di illustrazione e tipografia.

JOB DESCRIPTION

Il lavoro di Hosgör è parte della sua identità. Il suo stile è colorato, divertente e dinamico. Il suo principale obiettivo è far sì che coloro che vedono il suo lavoro si stupiscano, si divertano e vi ritrovino qualcosa di straordinario.
Rispetto ai collage realizzati per l’Annual Report 2019 di Pirelli, ha dichiarato: “Il fatto che la mia strada e quella di Pirelli si siano incrociate mi ha reso molto felice. Perché, sia le opere stesse, sia il modo in cui le abbiamo assemblate insieme, ne accrescono il significato. Pirelli è un leader mondiale e questo mi ha profondamente motivato. Inoltre, concetti come velocità, sostenibilità, innovazione e intelligenza artificiale sono all’ordine del giorno sia per Pirelli che per il mondo. La fortuna è stata quella di lavorare insieme per interpretare questi temi di attualità attraverso il design.”

Selman Hoşgör
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01 Reflection di EMMANUEL CARRÈRE

Nato a Parigi, Emmanuel Carrère è considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei. Nelle sue prove letterarie sembra avere recuperato dalla sua formazione cinematografica uno sguardo che scandaglia il reale cogliendolo nella sua semplice terribilità. Tra le sue opere, L’avversario (2000), Vite che non sono la mia (2009), Limonov (2011) e il Regno (2015).

Mezzogiorno
dalla porta
di casa propria

di EMMANUEL CARRÈRE

È un proverbio francese che mi piace molto: «Ognuno vede mezzogiorno dalla porta di casa propria». Traduzione: come la nostra percezione dell’ora cambia a seconda del luogo in cui ci troviamo, così il nostro modo di vedere le cose cambia a seconda della nostra situazione personale.

Per dirla in maniera più brutale: vediamo soprattutto i nostri interessi e riteniamo che i problemi più importanti siano i nostri.

Sul piano filosofico, è deludente: avremmo desiderato maggiore altruismo e larghezza di vedute. Sul piano umano, trovo piuttosto rassicurante che ciascuno veda mezzogiorno dalla porta di casa propria. È rassicurante perché è umano, ed è per questo che dall’inizio del lockdown (non avrete pensato seriamente che avremmo parlato d’altro?) ho deciso di scrivere ogni giorno un breve testo su come, in questo periodo, una persona vede mezzogiorno dalla porta di casa propria.

All’inizio lo facevo con persone che conosco, amici ai quali telefono, con cui mi collego via Skype, che sono a Parigi, in campagna, soli oppure con la famiglia o con il partner, che hanno avuto persone che si sono ammalate o sono morte, o che come me sono ancora vergini sotto questo aspetto…

E poi ho cominciato a interrogare i miei vicini di palazzo, e poi qualcuno per strada. Quelli che fanno la coda davanti al supermercato, i senza fissa dimora, i piccoli spacciatori che trafficano sotto le mie finestre… Ho messo insieme così qualche decina di microracconti, non tutti dello stesso interesse, ma va bene, è il mio modo di frequentare questo nuovo genere letterario che è il diario dell’isolamento. Ora, se volete sapere com’è mezzogiorno dalla porta di casa mia e che cosa mi assorbe veramente, la risposta è: un libro. Non l’inizio di un nuovo libro; la sua fine. So perfettamente che al mondo ci sono cose più importanti, ma non ce n’è nessuna più importante per me. Il libro che sto terminando è un libro sullo yoga – del resto è questo il suo titolo: Yoga. È un libro particolare sullo yoga perché parla anche del terrorismo jihadista, della crisi dei rifugiati e di una depressione malinconica per la quale ho passato quattro mesi in un ospedale psichiatrico e subìto quattordici elettroshock. Un libro sullo yoga, dunque, ma possiamo anche dire: un libro che dalla visuale dello yoga racconta cinque anni di una vita. Ero arrivato, con il mio libro, esattamente al momento in cui si comincia a rimettere le virgole nei posti da cui si erano tolte – un segnale inequivocabile: se si continua, si finirà per rovinare il testo invece di migliorarlo.

Avevo promesso di spedire il file definitivo al mio editore a metà aprile, mi ero ripromesso che per metà aprile lo avrei finito qualsiasi cosa accadesse, ma quel che è accaduto è che il 17 marzo in Francia ci siamo ritrovati tutti confinati in casa, e perciò a metà aprile quando, fra una partita a scacchi e l’altra con mia figlia tredicenne (comincia a battermi), apporto le ultime correzioni al libro, sono isolato nel mio appartamento a Parigi.

Ogni volta che apro il file, vengo assalito da una preoccupazione nuova per me. La mia domanda non è tanto: è un buon libro? – questa domanda me la pongo in tempi normali, è una tipica e rassicurante domanda da tempi normali –, ma: non sarà superato? Un libro del mondo di prima, un libro che forse sarebbe stato interessante nel mondo di prima ma che, siccome non include questa cosa enorme che ci è accaduta nel frattempo, rischia di essere, proprio così, superato. Un’impressione del genere io non l’ho mai provata, e credo pure nessun altro. Siamo rimasti tutti basiti davanti al crollo delle Torri Gemelle, quello che fino a oggi era l’avvenimento storico di maggiore portata accaduto nella nostra vita, ma nessuno scrittore, credo, ha pensato che il suo romanzo su un triangolo amoroso o sui primi disinganni della sua infanzia fosse divenuto antiquato dopo l’11 settembre 2001. E allora? Allora, niente: continuo, correggo, do gli ultimi ritocchi al mio libro sullo yoga. Può sembrare una cosa insignificante ma, se lo yoga è ciò che credo, insignificante non è, e non lo è nemmeno cercare di descrivere non tanto la propria piccola vita quanto, attraverso la propria piccola vita, l’aspirazione a essere ciò che si vorrebbe essere e le forze distruttive che vi impediscono di esserlo: la lotta comune, più o meno, a tutti noi. E, così, continuo: è la mia forma di resilienza. Questa mattina, nella mia meticolosa vivisezione del testo sono capitato di nuovo su un brano in cui racconto una cena a casa di un amico, nel dicembre 2014.

Avevamo bevuto parecchio e, al momento dei saluti, sulla porta di casa, avevamo avuto una discussione piuttosto buffa per stabilire se dovevamo stringerci la mano, come avevamo fatto fino a quel momento, o darci un bacio sulla guancia. Ci siamo chiesti quando di preciso, e come, era nata l’abitudine di darsi un bacio sulla guancia fra uomini, abitudine che nella nostra lontana gioventù sarebbe sembrata a entrambi semplicemente ridicola. Alla fine, ci siamo baciati sulla guancia. Un mese dopo, questo amico che si chiamava Bernard Maris è stato ucciso nell’attentato a Charlie Hebdo. E dopo altri cinque anni, nel leggere questo brano sono stato preso da una straziante nostalgia. Perché quel tempo in cui si poteva esitare fra una stretta di mano e un bacio sulla guancia, quel tempo in cui veniva così facile salutarsi nei due sensi del francese embrasser – stringendo l’altro fra le braccia o posando le labbra sulla sua guancia –, siamo sempre di più a temere che sia finito, che non torni più, che anche dopo la fine del lockdown non ci potremo più embrasser.

02 Reflection di JOHN SEABROOK

John Seabrook è l’autore di "The Song Machine: Inside the Hit Factory", "Nobrow" e altri libri. È da lungo tempo tra le firme del New Yorker magazine. Con la sua famiglia vive a New York City

La
brigata
Zoom

di JOHN SEABROOK

Recentemente ci siamo ritrovati in dieci, un gruppo di vecchi amici, in una sessione di Zoom; dall’inizio della pandemia abbiamo inaugurato una serie di incontri virtuali che spero continueranno anche quando finirà. Ognuno di noi racconta storie di vita nel proprio luogo di auto-isolamento. Zoom, maestro severo, non permette che ci si sovrapponga nel parlare perciò uno per uno, a turno, ci intratteniamo con racconti, battute goliardiche, ricordi delle nostre imprese dei tempi pre-pandemia. L’arguzia e l’estro narrativo sono le doti più apprezzate.

La struttura della conversazione mi ha fatto pensare a un libro meraviglioso: il Decameron (successivamente, notando le tendenze dei libri su Twitter, ho capito che altri avevano avuto la stessa idea). Il mio primo incontro con quest’opera e il suo autore, il poeta e scrittore fiorentino Giovanni Boccaccio (1313-1375), è avvenuto molto tempo fa, durante un corso universitario sul Rinascimento italiano. Un corso che, in retrospettiva, mi ha cambiato la vita.

Ed ecco che, seduto di fronte al laptop, mentre i volti dei miei compagni di ventura sfilavano lungo i bordi dello schermo, ho avuto la strana sensazione che questa modalità di comunicazione del 21º secolo mi proiettasse indietro nella città medievale di Fiesole, alle porte di Firenze, dove la “brigata” di Boccaccio (un gruppo di dieci, come noi) si era rifugiata per sfuggire alla pestilenza, la Morte Nera, l’epidemia globale che falcidiò più della metà della popolazione fiorentina, in gran parte tra marzo e giugno del 1348. Dioneo, Filomena e gli altri personaggi passano le giornate nel giardino della villa e, alla sera, condividono racconti rievocanti le delizie mondane prima della pandemia, proprio come noi. Nelle nostre regolari sessioni di Zoom, inconsciamente, ripetevamo le gesta della brigata nel racconto di Boccaccio, pubblicato per la prima volta nel 1353.

“Qualcuno di voi ha letto il Decameron?” ho chiesto quando è arrivato il mio turno. Non lo aveva letto nessuno, anche se diversi membri del gruppo avevano visto la scabrosa versione cinematografica di Pier Paolo Pasolini del 1971. Perciò, prendendo la parola, ho incentrato il mio raccontato sul libro.

Da giovane pensavo di diventare un ingegnere, come mio padre, o uno scienziato; invece sono diventato uno scrittore (come mia madre) che scrive storie su personaggi come mio padre: scienziati e ingegneri. Cerco l’elemento umano in soggetti complessi e tecnici, l’anima nella macchina. L’intelligenza artificiale ha fatto prodigiosi passi in avanti nell’ultimo decennio, grazie al passaggio all’apprendimento profondo basato su reti neurali ma, con tutta la sua capacità di elaborazione, si trova ancora nei Secoli Bui. Difetta dell’“umanesimo”, la filosofia al cuore del Rinascimento.

Gran parte del merito (o della colpa, agli occhi di mio padre) per il mio riorientamento professionale spetta a Boccaccio, a quel corso e al suo docente, il Professor Anthony Grafton dell’Università di Princeton, la persona più colta che abbia mai conosciuto. La prima lezione fu sul Decameron, e Grafton iniziò leggendo l’introduzione alla prima giornata, un resoconto vivo e terrificante degli effetti della pandemia a Firenze.

“Ma perché iniziare un corso sul Rinascimento con la Morte Nera?” chiese uno dei miei amici, rubandomi momentaneamente la scena sullo schermo di Zoom.

“Perché senza la Morte Nera niente sarebbe cambiato,” ho risposto. Il volto del mio amico era dubbioso. Riferii al gruppo le osservazioni del professore su come la pestilenza avesse dato slancio alla tecnologia. La morte di tanti scribi aveva fatto decollare gli esperimenti sulla stampa meccanica, che avrebbero portato all’epocale invenzione di Gutenberg del 1452: la pressa tipografica.

“Sapevate che il Decameron è stato uno dei primi libri ad essere stampato?”

“Ma cosa ha a che fare il Decameron con il Rinascimento?” chiese un altro compagno di brigata.

Perchè senza la Morte Nera,
nulla sarebbe cambiato

“Semplicemente tutto,” ho risposto. “Pensateci: il mondo si avvia alla fine e, cinque anni dopo, appare quest’opera epica in prosa, il primo capolavoro della moderna letteratura occidentale. Il canone inizia con Boccaccio. La morale della storia è: “Finché esisterà la narrazione, l’umanità avrà un futuro”. Neanche la Morte Nera è riuscita a spegnere la sua forza vitale. Quale miglior esempio della resilienza umana, di fronte a un’avversità inconcepibile, del Decameron?”

“Come dire ‘Creativity Goes On’?” intervenne qualcuno, citando lo spot di Apple in risposta alla pandemia.

“Come dire che serve una crisi per ricordarci che tutti possediamo questo dono umano essenziale: la narrazione. Il motivo per cui,” dissi concludendo il racconto, “sono diventato scrittore e non ingegnere.” Scusa, papà, ero giovane e scriteriato…

“Perciò coraggio, amici!” proseguii, immedesimandomi facilmente nel ruolo di Dioneo, l’alter-ego di Boccaccio che ha l’ultima parola nel libro. “Raccontandoci le nostre storie, tra una sessione di Zoom, di Google Hangouts e un video Tic Toc, stiamo salvando il mondo. Questo è il Decameron in tempo reale.”

Abbiamo chiuso la sessione, ripromettendoci di incontrarci la settimana seguente. La nostra villa virtuale è svanita, insieme ai rigogliosi giardini medievali di Fiesole in cui i personaggi di Boccaccio trascorrono le ore calde della giornata, finché non riprende la narrazione.

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