Pirelli Annual Report 2020

Annual Report 2020
The
Human
Dimension
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“The Human Dimension” è il titolo dell’Annual Report 2020 di Pirelli, in cui tre grandi autori riflettono da punti di vista diversi sulle grandi trasformazioni in atto, accelerate dalla pandemia, e sugli impatti che queste hanno nella vita e nei sentimentidelle persone. Il filosofo Luciano Floridi in “A beautiful glitch: per un futuro umano verde e blu” suggerisce di risolvere le sfide etiche e gestionali della rivoluzione digitale, oggi più attuali che mai, unendo il “verde di tutti gli ambienti in cui viviamo” con "il blu di tutte le tecnologie digitali". La scrittrice ed editorialista del New Yorker, Jia Tolentino, racconta la riscoperta del tempo lento, dove il piacere di contemplare il tramonto si contrappone ai ritmi frenetici della vita pre covid. Loscrittore e giornalista Michele Masneri interpreta con il suo stile la “dimensione umana” di Pirelli e di Milano, con l’azienda e la città a inseguirsi in un continuo gioco di specchi e di rimandi. A completare il volume, i collage dell’illustratrice Johanna Goodmanche danno forma a questa umanità, da proteggere e coltivare, rappresentando alcune delle caratteristiche che contribuiscono a delineare l’identità di Pirelli: Sapere, Comunità, Bellezza, Radici, Passione, Avanguardia.

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Johanna Goodman è un’artista che ha esposto e pubblicato le sue opere a livello internazionale. Il suo mezzo artistico principale è il collage. Ha studiato alla Parsons School of Design di New York e nel 2017 è stata insignita della borsa di studio New York State Council for the Arts / New York Foundation for the Arts Fellowship nella categoria Printmaking / Drawing / Book Arts. Il suo lavoro ha anche ottenuto la medaglia d’oro da The Society of Illustrators e premi da American Illustration and Communication Arts. Vive a New York.

Johnna Goodman
"Self-portrait"

Johnna Goodman, 'Self-portrait'
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A beautiful glitch:
per un futuro umano
verde e blu

di Luciano Floridi

La rivoluzione digitale rappresenta un nuovo capitolo nella storia umana, tanto significativa quanto quella agricola e quella industriale. Questa rivoluzione, causata da straordinarie innovazioni tecnologiche nella registrazione, distribuzione e elaborazione automatica dei dati, sta trasformando l’ambiente in cui viviamo, rappresentato sempre di più dall’infosfera; il modo in cui viviamo, sempre più onlife; e la nostra identità, cioè come ci relazioniamo e come ci auto-rappresentiamo. Si tratta quindi di una rivoluzione soprattutto concettuale e culturale, che genera significative sfide sia etiche sia gestionali per la cosiddetta governance del digitale. Risolvere positivamente queste sfide significa unire in modo costruttivo e fruttuoso il Verde di tutti gli ambienti in cui viviamo, naturali e artificiali, con il Blu di tutte le tecnologie digitali, dai Big Data all’Intelligenza Artificiale. Questo matrimonio tra il Verde e il Blu con le sue positive ricadute sociale e ambientali, è il progetto umano per il ventunesimo secolo.

A volte dimentichiamo che la vita senza il contributo positivo della politica, della scienza e della tecnologia diventa presto "solitaria, povera, cattiva, brutale e breve", per usare la famosa frase del Leviatano di Thomas Hobbes. La crisi del COVID-19 ci ha tragicamente ricordato che la natura può essere spietata. Solo la buona volontà e l’ingegno possono salvaguardare e migliorare la vita di miliardi di persone. Oggi, gran parte di questo sforzo è esercitato nel realizzare una rivoluzione epocale: la trasformazione di un mondo esclusivamente analogico in uno sempre più digitale. Gli effetti sono visibili ovunque: questa è la prima pandemia durante la quale un nuovo habitat, l’ infosfera, ha aiutato a superare i pericoli della biosfera. Da tempo viviamo onlife (sia online che offline), ma la pandemia ha reso l’esperienza onlife una realtà comune e irreversibile.

Tra i fattori cruciali in questa rivoluzione epocale ci sono l ‘enorme potenza di calcolo sempre meno costosa, una connettività sempre più pervasiva, colossali quantità di dati in costante crescita, e infine l’intelligenza artificiale (IA), sempre più efficace. Con una definizione classica, l’AI è l’ingegnerizzazione di artefatti che possono fare cose che richiederebbero intelligenza se dovessimo farle noi. Questo significa che l’IA non è un matrimonio tra computazione e intelligenza, ma un divorzio senza precedenti tra agency e intelligenza, cioè tra la capacità di completare compiti o risolvere problemi con successo in vista di un obiettivo e qualsiasi necessità di essere intelligenti nel farlo. Per giocare a scacchi anche solo applicando le regole devo essere intelligente, ma il mio cellulare mi batte pur essendo stupido come un tostapane.

Questo divorzio è diventato possibile solo recentemente, grazie ai fattori già menzionati – rete, calcolo e dati – ai quali si aggiungono strumenti statistici sempre più sofisticati, e la trasformazione dei nostri habitat in luoghi sempre più compatibili con l’IA. Più viviamo nell’infosfera e onlife, più condividiamo le nostre realtà quotidiane con agenti artificiali che possono svolgere bene un numero crescente di compiti.

Il limite dell’AI è solo nell’ingegnosità umana. Oggi l’IA può aiutarci a conoscere, comprendere, prevedere e risolvere di più e meglio le numerose sfide che stanno diventando così pressanti: il cambiamento climatico, l’ingiustizia sociale, la povertà globale, e l’aggiornamento delle democrazie liberali. La gestione efficace dei dati e dei processi da parte dell’IA può accelerare il circolo virtuoso tra innovazione, modelli business, imprenditoria di maggior successo, scienza più avanzata, e politiche anche legislative più lungimiranti. Tuttavia, la conoscenza è potere solo se tradotta in azione. Anche qui, l’IA può essere una forza straordinaria per il bene, aiutandoci ad affrontare problemi complessi, sistemici e globali. Non possiamo risolverli individualmente. Dobbiamo coordinarci (non ci ostacoliamo a vicenda), collaborare (ognuno di noi fa la sua parte) e cooperare (lavoriamo insieme) di più e meglio. E l’IA può aiutarci a sviluppare queste 3C in modo più efficiente (più risultati con meno risorse), in modo efficace (risultati migliori) e in modo innovativo (nuovi risultati).

C’è un "ma": l’ingegnosità umana senza buona volontà può essere pericolosa. Se la rivoluzione digitale non è controllata e guidata in modo etico e sostenibile, può esacerbare i problemi sociali, dal pregiudizio alla discriminazione; erodere l’autonomia e la responsabilità umane; e ingigantire i problemi del passato, dalla distribuzione ingiusta dei costi e dei benefici allo sviluppo di una cultura della mera distrazione. La stessa IA rischia di trasformarsi dall’essere parte della soluzione a essere parte del problema. Quindi buone normative internazionali, a partire dall’Unione Europea, sono essenziali per garantire che l’IA rimanga una potente forza per il bene.

L’AI usata per la creazione e distribuzione di ricchezza, per il bene sociale, e per la sostenibilità ambientale è parte di un nuovo matrimonio, tra il Verde di tutti i nostri habitat – naturali, sintetici e artificiali, dalla biosfera alla infosfera, dagli ambienti urbani alle condizioni culturali, economiche, sociali e politiche – e il Blu di tutte le nostre tecnologie digitali, dai telefoni cellulari alle piattaforme dei social media, dall’Internet of Things ai Big Data, dall’AI al futuro quantum computing. La pandemia è stata la prova generale di quello che dovrebbe essere il progetto umano per il ventunesimo secolo, un divorzio con successo tra agency e intelligenza e un buon matrimonio tra il Verde e il Blu.

Alla luce del Verde & Blu, la società dell’informazione si comprende meglio come una società neo-manifatturiera, in cui le materie prime e l’energia sono sostituite da dati e informazioni, il nuovo oro digitale e la vera fonte di valore aggiunto. Non solo la comunicazione e le transazioni quindi, ma la creazione, la progettazione e la gestione delle informazioni rappresentano le chiavi per la corretta comprensione della nostra epoca e per lo sviluppo di una società migliore e sostenibile. Tale comprensione richiede una nuova visione di chi siamo oggi e di quale progetto umano desideriamo perseguire. Precedenti rivoluzioni nella creazione di ricchezza, come quella agricola e industriale, hanno portato a trasformazioni macroscopiche nelle nostre strutture ambientali, sociali e politiche, spesso senza molta lungimiranza e con profonde implicazioni concettuali ed etiche. La rivoluzione digitale non è meno profonda. In considerazione di questo importante cambiamento storico, il compito è quello di formulare un quadro etico e politico che possa trattare l’infosfera come il nostro nuovo ambiente. E la filosofia come design concettuale (conceptual design) può contribuire a tale aggiornamento di prospettiva.

Galileo suggeriva che la natura fosse come un libro, scritto con simboli matematici, da leggere attraverso la scienza. Oggi non sembra più una metafora, in un mondo che è sempre più fatto di 0 e 1. Le tecnologie digitali hanno sempre più successo al suo interno perché, come i pesci nel mare, sono i veri nativi dell’infosfera. Loro svolgono meglio di noi un numero crescente di compiti perché noi siamo organismi analogici che cercano di adattarsi a un habitat sempre più digitale, come sommozzatori. Così, gli agenti artificiali, siano essi soft (app, webot, algoritmi, software di tutti i tipi) o hard (robot, auto senza conducente, orologi intelligenti e gadget di tutti i tipi) stanno sostituendo gli agenti umani in aree che si pensava fossero impraticabili per qualsiasi tecnologia solo alcuni anni fa: catalogare immagini, tradurre documenti, interpretare radiografie, estrarre nuove informazioni da enormi masse di dati, scrivere articoli di giornale, e molte altre cose. I colletti marroni e quelli blu subiscono da decenni la pressione del digitale; ora tocca ai colletti bianchi. È impossibile prevedere quanti lavori spariranno o saranno radicalmente trasformati, ma ovunque le persone oggi lavorano come vecchie interfacce – ad esempio tra un GPS e un’auto, tra due documenti in lingue diverse, tra alcuni ingredienti e un piatto, tra i sintomi e la malattia corrispondente – quel lavoro è a rischio. Allo stesso tempo, stanno emergendo nuovi lavori – li ho chiamati colletti verdi – perché sono necessarie nuove interfacce, tra i servizi forniti dai computer, tra i siti web, tra le applicazioni di IA, tra i risultati dell’IA e così via. Qualcuno dovrà decidere se un testo debba essere tradotto e controllare che la traduzione approssimativamente buona sia una traduzione sufficientemente affidabile, per esempio. Molte attività rimarranno troppo costose per l’AI, anche supponendo che siano realizzabili dall’AI. Ma se non forniremo quadri legali ed etici migliori, la rivoluzione digitale polarizzerà ulteriormente la nostra società, basti pensare al digital divide o la gig economy. La legislazione giocherà un ruolo influente anche nel determinare quali lavori dovranno restare “umani”. I treni senza conducente sono una rarità anche per ragioni legislative, eppure sono molto più facili da gestire rispetto agli autobus senza conducente. Resta da sottolineare che molti compiti che scompariranno non elimineranno i lavori corrispondenti: ora che ho un robot tagliaerba ho più tempo per curare le rose. E molte attività saranno solo ricollocate sulle nostre spalle, basti pensare alle casse automatiche che ci permettono di scansionare le merci al supermercato. La rivoluzione digitale ci farà sicuramente svolgere più compiti in futuro.

In tutto ciò, la nostra intelligenza sarà messa sempre più alla prova dal successo dell’IA e la nostra autonomia sarà sfidata dalla prevedibilità e manipolabilità delle nostre scelte da parte dell’AI. Anche la nostra socievolezza sarà testata dalla sua controparte artificiale, rappresentata da compagni artificiali, semplici voci, o androidi che possono essere sia attraenti per gli umani sia a volte indistinguibili da loro. Non è chiaro come andrà a finire tutto questo, ma una cosa è certa: non sta arrivando alcun Terminator e gli scenari fantascientifici sono distrazioni irresponsabili. Le tecnologie intelligenti resteranno tanto stupide quanto una calcolatrice tascabile, il problema sarà sempre l’uso che ne faremo.

Resta un’ultima sfida, alla nostra “eccezionalità”. Dopo le quattro rivoluzioni comportate da Copernico, Darwin Freud e Turing, non siamo più al centro dell’universo, del regno animale, della sfera mentale e dell’infosfera. È venuto il momento di accettare che la nostra eccezionalità risiede in un modo speciale e forse irriproducibile di essere disfunzionali con successo. Come si sarebbe detto al liceo, siamo un hapax legomenon (una parola che ricorre solo una volta in un testo) nel libro della natura di Galileo. Con una metafora più digitale e contemporanea, siamo un bellissimo glitch nel grande software dell’universo, non l’app di maggior successo. Un glitch che dovrà essere sempre più responsabile nei confronti della storia che scrive, e della natura di cui deve prendersi cura. ˙

Luciano
Floridi

è Professore di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove è Direttore dell’OII Digital Ethics Lab. È un esperto di fama mondiale di etica digitale, etica dell’intelligenza artificiale, filosofia dell’informazione e filosofia della tecnologia. Ha pubblicato più di 300 opere, tradotte in molte lingue. È profondamente impegnato nella sfera sociale ed etica oltre che nelle implicazioni delle tecnologie digitali e delle loro applicazioni. Collabora strettamente su questi argomenti con molti governi e aziende in tutto il mondo.

Tramonto

di Jia Tolentino

traduzione di Simona Siri

Due anni fa, mentre stavo andando in metropolitana da Brooklyn a Manhattan, ho aperto il mio calendar e ho realizzato di non avere un giorno libero da impegni di lavoro per i successivi tre mesi. Silenziosamente ho iniziato ad andare in panico, chiedendomi come fosse possibile che la mia vita fosse diventata così piena di cose da fare ma senza davvero sapere perché le facessi, come fossi riuscita a usare così male la mia libertà, come diavolo fosse successo che avessi cercato così duramente di sfruttare me stessa come essere umano al punto tale da non avere più tempo per essere umana. Quando sono risalita dalla metropolitana, il sole stava tramontando, elettrico e tragico, un colore melograno al neon dietro i grattacieli. Ho deciso che come primo passo di un processo di recupero avrei iniziato a raccogliere sul mio telefono una collezione di tramonti.

L’esercizio era volutamente senza scopo, piuttosto che accidentalmente inutile, come tante cose avevano cominciato a sembrarmi; la raccolta di tramonti era solo un modo strutturato per invogliarmi a fermarmi abbastanza a lungo per prendere in considerazione ciò che stava accadendo nel cielo. A Brooklyn, il 14 settembre 2019, il tramonto era grigio-azzurro come una camicia oxford, strisce di nuvole di ardesia erano illuminate da sotto con un bagliore bordeaux. A Toronto, una settimana dopo, il tramonto era radioso color pesca, con un bagliore evanescente di chartreuse, una nuvola scura che attraversava il panorama come una nave da guerra, piume di fenicotteri rosa che si fondevano nel blu. A Kauai, alle sei e mezza di un giorno di dicembre, c’era un gruppo di parrocchetti grigi appena sopra l’acqua, sormontato da meringa al limone, malva velata. A Cedar Rapids, nel febbraio 2020, il tramonto alle 17:24 sembrava un gradiente di ghiaccio tritato di albicocca, banana e uva.

Quasi immediatamente, la raccolta di tramonti è diventata un esercizio di patetico inganno. Una notte notai che il cielo sembrava vigoroso e malinconico, in un’altra giocoso e sontuoso, in un’altra ancora gentile e rassegnato. Dovevo ricordare a me stessa che la terra era impermeabile a qualunque delle emozioni semisepolte che stavo proiettando su di essa. Queste manifestazioni di radiosità passeggera erano prive di significato o, più propriamente, parlavano di scale e sistemi che rendevano me priva di significato. Niente resiste alla cattura come un tramonto, e niente ci invita così insistentemente alla follia di provarci. Ci sono duecentosettantasei milioni di foto di tramonti su Instagram; ce ne sono quasi cinque milioni che vivono ancora su Flickr; e due milioni e mezzo in licenza su Getty Images. A volte, mentre prendevo appunti su un tramonto, altre persone notavano il cielo e si mettevano accanto a me, e formavamo un piccolo nodo di estranei, a bocca aperta, i telefoni puntati all’orizzonte, come se questa volta, finalmente, potessimo davvero superare il grande cliché. Tendiamo a concepire l’osservazione del tramonto come un’esperienza di beatitudine non mediata - solo noi, e forse qualcuno che amiamo, a guardare le nuvole prendere il rosso ciliegia e a farneticare - anche se sappiamo che quasi inevitabilmente infrangeremo le nostre fantasticherie cercando di registrare quello che vediamo. Ho iniziato a pensare che la registrazione dei tramonti provenisse in parte da un desiderio inconscio di ricordare la piccolezza dei nostri sforzi, il modo in cui si dissolvono così rapidamente, che ciò che vogliamo veramente può essere un’esperienza ma non un possesso.

Ho smesso di tenere la raccolta dei tramonti all’inizio della pandemia, nei primi giorni, quando non era appropriato indugiare per lunghi minuti in pubblico. Il futuro era sospeso, il presente era terrificante, c’era poco da fare - almeno per me, coccolata da un lavoro nell’economia del sapere - se non mettere in forno cose da mangiare e controllare le statistiche globali di sofferenza e di morte in continua crescita. Non c’erano più viaggi, niente più fretta per le riunioni, niente corse a perdifiato in ritardo per la cena di compleanno di un’amica, niente conferenze, niente matrimoni, niente viaggi su treni pieni a scrivere e-mail sull’iPhone, niente famiglia in visita, niente chiacchiere con gli sconosciuti, nessun indugio sui prodotti al supermercato. Non c’era altro che la vastità elastica e sfuggente di ogni giorno uguale all’altro.

In questo stato di vitalità sospesa, mi sono addentrata in un silenzioso calcolo del mio rapporto con il lavoro. Mi sono sentita spesso così fortunata a vivere di scrittura - avere il lusso di tendere alla realizzazione personale mentre si pagano le bollette - che a volte dimentico che è possibile smettere di lavorare, figuriamoci desiderabile o necessario. In certi momenti ho interiorizzato l’idea sbagliata di dovermi attaccare al mio lavoro con sempre più passione perché molti lavori al mondo sono sottopagati e umilianti. Ma la pandemia mi ha mostrato, in modo definitivo, l’erroneità di questa risposta. Ogni giorno, altrove, gli ingranaggi del mondo macinavano: gli insegnanti organizzavano intere giornate di asilo via Zoom, gli assistenti delle case di cura cambiavano i pannolini ad anziani soli e confusi, i magazzinieri di Amazon impacchettavano duecento scatole all’ora, i commessi dei supermercati disinfettavano i nastri trasportatori, i fattorini si rompevano la schiena affinché le persone come me potessero godersi le loro nuove pantofole da quarantena, i medici del pronto soccorso tornavano a casa in preda a una disperazione paralizzante. In questo contesto, l’idea che avrei dovuto lavorare di più per riconoscere il mio privilegio sembrava chiaramente ridicola. L’unico modo per onorare questi lavoratori era fare di tutto per promuovere condizioni in cui il lavoro riconosca piuttosto che neghi l’umanità del lavoratore - spingere verso un mondo in cui tutti possano avere la sicurezza, in un modo o nell’altro, di fermarsi e guardare il cielo.

Mi sono ritrovata ad aggrapparmi a diverse unità di tempo e misura, a cose che erano qui prima di noi e che ci sarebbero sopravvissute. Ho cercato di ricordare a me stessa che anche questo anno orribilmente ad alto rischio è stato solo uno delle centinaia di migliaia di anni di esistenza umana, un periodo che a sua volta comprende una piccola frazione della percentuale del tempo dalla nascita dell’universo. Eravamo così minuscoli, non eravamo altro che le cose che potevamo fare l’uno per l’altro. Per la prima volta nella mia vita adulta, ho iniziato a cercare di prestare più attenzione al mondo naturale rispetto al mondo digitale. Dal luogo dove stavo trascorrendo il lockdown non riuscivo a vedere il tramonto, ma ho iniziato a prendere appunti sugli alberi e sul tempo, lasciando che la pratica fosse un altro promemoria per rallentare e guardarmi intorno. Ho scritto di come il crepuscolo sulla neve facesse risplendere tutto come luce nera, dei boccioli che spuntano su un acero in primavera, dei fiori di pioppo che turbinano al vento fuori dalla finestra, del giorno in cui il cielo è diventato grigioverde come l’occhio di un gatto e una nuvola a clessidra si è raccolta in lontananza e ho trascinato dentro il cane prima che iniziasse a ululare.

E ho continuato a riorientare il mio rapporto con Internet, che da un lato mi aveva spinto, con i suoi incentivi verso la massima efficienza, redditività e produttività, verso la mia crisi in metropolitana in primo luogo, ma dall’altro conteneva un milione di cieli come promemoria della nostra meravigliosa piccolezza nel mondo. Ho guardato le telecamere della fauna selvatica di bufali nel Dakota del Sud, quelle dell’acquario delle meduse lunari che pulsano. Ho passato ore a guardare WindowSwap, il sito web che mi ha permesso di osservare la costruzione del centro di Dallas dal punto di vista di Maria, il gatto di Ricky che guarda il vialetto di Melbourne, il crepuscolo blu di Yvan a Parigi. Ho iniziato a farmi strada tra i video di tramonti su YouTube. Un video della NASA mostrava tramonti simulati su altri pianeti: giallo per Venere, blu freddo per Marte. C’erano video di tramonti in timelapse, compilation di quelli più di successo, video zoomati dell’inafferrabile lampo verde che può verificarsi quando il sole scivola al di sotto dell’acqua. "TRAMONTO PERFETTO 60min 4K (Ultra HD)", pubblicato nel 2014, ha quasi tre milioni di visualizzazioni: mostra un’ora ininterrotta di un tramonto abbagliante sull’oceano a Kagoshima, in Giappone, un nucleo giallo incandescente che si scioglie in color mandarino su acqua iridescente. "Sto guardando il tramonto fuori dalla finestra in questo momento, perché i miei genitori hanno avuto un’altra discussione accesa e a voce alta", scrive un utente di nome Crusty Egg. "Il tramonto mi calma". Un altro utente di nome Akira scrive: “È così bello e allo stesso tempo mi rende triste. So che lo sei anche tu". Molti utenti hanno scritto di guardare il tramonto durante la pandemia. Verso la fine del 2020, un utente di nome djl2206 scrive: "Ho sempre voluto andare da qualche parte lontano da tutti gli altri, senza dovermi preoccupare di niente e di nessuno. Potrei finalmente essere me stesso e non portare più il peso del mondo sulle mie spalle. Ho sempre pensato che i tramonti siano la cosa più bella del mondo".

In questi commenti ricorreva una riconoscibile combinazione di dolore e speranza: un senso di quieta perdita e caducità, un desiderio straziante di più amore, più spazio, più agio. Anche nei mondi virtuali in cui le persone sono fuggite durante la pandemia, il tramonto era lì, a rappresentare qualcosa di irriducibilmente umano: nel videogioco Animal Crossing, l’acqua diventa viola durante il tramonto e il cielo si accende di sfumature di pomodoro e prugna. "Ieri mi stavo godendo un tramonto spettacolare dal vivo che me ne ha ricordato un altro in un videogioco", ha scritto un utente su un forum online, "cioè quando sei al Soldier’s Field in BioShock Infinite, e tutto è una specie di lavanda luminosa. È un tramonto statico, ma che rimane con te, non da ultimo perché quel caldo bagliore si adatta ad alcuni dei fugaci momenti di pace e speranza in quella parte del gioco".

Mentre scrivo queste pagine, la prospettiva di una fine a questa apparentemente eterna èra pandemica sta spuntando attraverso la terra, come un croco primaverile. In futuro ci muoveremo di nuovo; ci sfioreremo l’un l’altro; gli ingranaggi accelereranno tanto velocemente quanto glielo permetteremo. La mia speranza è che ci ricorderemo di mantenere più calma di quanto pensavamo fosse possibile, di concederci questa quiete l’uno l’altro. Torno per qualche giorno sulla bacheca di Reddit dedicata esclusivamente ai tramonti, dove gli utenti pubblicano foto dalla Russia, dalle Filippine o dalla Germania. "Com’è meravigliosa la nostra terra", scrivono più e più volte. "Mozzafiato". Pochi giorni fa, un utente ha pubblicato un tramonto infuocato dal New Jersey. "Per caso era l’altra notte?", ha scritto un altro utente. Aveva lavorato in un supermercato della zona, ma per caso aveva visto lo stesso bagliore ˙

Jia
Tolentino

Jia Tolentino è una scrittrice della rivista americana New Yorker e autrice della raccolta di saggi Trick Mirror (NR edizioni). Precedentemente ha lavorato in qualità di vicedirettrice a Jezebel e come redattrice a The Hairpin. Cresciuta in Texas, ha studiato all’Università della Virginia e ha ottenuto un Master of Fine Arts in narrativa dall’Università del Michigan. Nel 2020, Jia ha ricevuto il Whiting Award e il Jeannette Haien Ballard Writer’s Prize. I suoi articoli sono apparsi sul New York Times Magazine, Pitchfork, e altre pubblicazioni. Vive a Brooklyn.

Pirelliani a Milano

di Michele Masneri

Ci sono, è chiaro, città fatte per essere vuote, come Roma che deserta è bellissima, e altre che senza persone non hanno senso: Milano. La pandemia ce l’ha dimostrato: Milano dà il suo meglio nell’accogliere persone, si trova bene con le file, con quelli che oggi si chiamano “assembramenti”.

Certo, ad arrivare, Milano un tempo faceva un po’ paura: metropoli grigia (quando c’era la nebbia, prima del global warming); e piena di gente, appunto, gente indaffarata, che veniva a Milano a giocarsi le sue carte, gente un po’ frettolosa, gente piena di speranze. Il “Pirellone”, davanti alla stazione Centrale che accoglieva i nuovi arrivati come un tempio egizio o assiro-babilonese, è da sempre un faro: faro e indicazione per chi arrivava e si doveva districare nella città del progresso, quando ancora c’era la nebbia. Il 2 luglio 1956 i due fratelli Alberto e Piero Pirelli posero la prima pietra lì dove già stavano gli stabilimenti. Disegno di Gio Ponti, anima di cemento armato di Pierluigi Nervi, due lombardi da esportazione. Quel grattacielo imitatissimo (vedi il Pan Am a New York) e velocissimo (lavori durati solo quattro anni), scriverà Ponti su Domus, rappresenta “forma finita, essenzialità, rappresentatività, espressività, illusività, aggiornamento tecnico, onore al lavoro e incorruttibilità”, una ricetta che sembra un inno alla lombarditudine.

E anche oggi vale ricordare altri appuntamenti con la storia che hanno a che fare col faro pirelliano: nel 1970 nacquero le regioni. Piero Bassetti diventa primo presidente della Lombardia (si diceva ancora “presidente” e non “governatore”, e davanti a Regione si metteva l’articolo) e cercherà una sede acconcia per la sua, che subito si sente più regione delle altre; con l’afflato al design che la caratterizza si butterà su un logo, un brand, che a differenza degli altri non comporta blasoni o corone o torrioni, ma un simbolo essenziale, la Rosa Camuna, diventata simbolo di persone, persone al lavoro, disegnata da un consorzio di cervelli milanesi e globali che rappresenta la Milano di quegli anni: tra gli altri Bruno Munari, e Bob Noorda.

Ma indietro, nel 1957, iniziava a Milano anche la costruzione della prima metropolitana d’Italia, “la rossa”, con disegno di Franco Albini e Franca Helg, grafica e lettering coordinate di Noorda, e lì geniali invenzioni per trasportare meglio le persone: un alfabeto inventato per l’occasione, opaco, per avere la massima visibilità; un fascione rosso continuo che seguendo l’intero percorso funge anche da guida verso i treni e l’uscita. Poi copiato nelle metropolitane di New York e San Paolo (“sempre sotto terra a studiare, i colleghi mi chiamavano la talpa”, dirà Noorda). Nello stesso anno, in viale Regina Giovanna i milanesi possono entrare nel primo supermercato italiano: nasce l’Esselunga. Perché le persone producono, guadagnano, consumano (è il vecchio adagio del “lavoro guadagno pago pretendo”). Sono anche gli anni di Carosello (sempre ’57) e Milano, con la sua piazza del Duomo, diventa un sogno commerciale coi cartelloni pubblicitari. Nel film “Susanna tutta panna”, di Steno, i titoli di testa scorrono su piazza del Duomo e i suoi cartelloni pubblicitari. Anche il film è un inno all’umanità milanese: un industriale non dorme la notte perché non riesce a carpire la ricetta di una famosa torta di panna. Ogni città fa i sogni che si merita. Anche il Pirellone diventa un’enorme vetrina per i prodotti Pirelli: non solo gomme, ma borsa dell’acqua calda, canotti, palline da tennis. Faro e vetrina, dunque, e sogni: siam pur sempre a Milano.

Alla sua ombra, sogni per tutti, per milanesi e per milanesi di fuori, come in “Sessomatto”; il film di Dino Risi del ’73 dove giovani sex worker pugliesi allignano sotto i grattacieli della non ancora costruita Porta Nuova. E avranno calpestato coi tacchi a loro insaputa gomma Pirelli anche nella neonata metropolitana. Il pavimento a bolle in gomma è infatti un’altra trovata Pirelli. E’ ancora lì, in tutte le fermate della “rossa”. Primo caso di utilizzo di rivestimento tra tutte le metropolitane europee. Si racconta che, per testare la resistenza della nuova mescola scelta, un campione fu collocato davanti all’ingresso delle operaie della Pirelli. Nemmeno i tacchi femminili lo scalfirono.

Ma i tacchi hanno un posto speciale nell’identità pur molto maschile di Pirelli: naturalmente all’avanguardia anche in tempi molto meno fluidi era il tacco rosso di Carl Lewis, l’uomo più veloce del mondo, che cammina sulle acque fotografato da Annie Leibovitz nel 1994 per la celeberrima e scandalosa campagna di “La potenza è nulla senza controllo”. Avanti almeno vent’anni sulle tematiche odierne identitarie e sui diritti. Come sarà all’avanguardia il calendario Pirelli che negli anni si trasforma in prodotto massimamente chic per appassionati: nato nel 1964, nel 2018 metterà in scena, abbandonati i celebri nudi, una rivisitazione della fiaba di Alice nel paese delle meraviglie con protagonisti tutti di colore con Whoopy Goldberg, Ru Paul, Naomi Campbell.

Che fosse dall’alto del Pirellone o dal basso della metropolitana, il marchio Pirelli ha accompagnato e sorvegliato insomma la dimensione di Milano, la città degli umani per eccellenza, per tutto il Novecento. “La potenza è nulla senza controllo” è un claim che andrebbe benissimo anche per i milanesi, del resto.

Milano non è New York, ma il flusso degli umani è simile, e qualcuno si ricorderà che quando prima del Covid la città era arrembante, i giovani arrivavano, i romani soffrivano, tutti stavamo lì ad ammirare ed invidiare la città che con l’Expo si era finalmente ripresa, e però bullizzava un po’ il resto d’Italia. C’era infatti anche una specie di sovrappiù, quel po’ di sicumera dei milanesi che quando le cose gli van bene perdono un po’, ecco, il controllo.

Poi Milano venne tramortita dalla pandemia, e sembrò quasi una punizione divina, l’invidia degli dei. Anche il suo modello di sviluppo è stato messo in discussione: meno grattacieli e più verde, si dice oggi, e arrivare nel quartier generale Pirelli a Bicocca sembra una specie di distopia o utopia realizzata, pare già un ufficio del futuro, con tantissimo verde intorno. A ricordarmi che non è sogno ma solida realtà è il tampone che mi viene fatto prima di entrare in un efficientissimo ambulatorio. “E se fosse stato positivo?”, chiedo. “Ah, l’avremmo fatta uscire immediatamente da quell’altra porta”, mi dice la solerte addetta. Una botola tipo “Deposito di zio Paperone”. Poi mi spiegano che l’ambulatorio è aperto a tutti i dipendenti, che si possono curare e testare a volontà, e anche questo è una cosa che non ti aspetti. O forse sì, da una grande azienda milanese-globale. Ma Milano non è la Silicon Valley: anche se questo sembra davvero un campus tipo i vari Google e Facebook: il verde, appunto, e poi edifici trasparenti, perfino corsi di mindfulness e yoga e una mensa aperta su ampi pascoli (però, nel giardino, la vecchia gloriosa Bicocca degli Arcimboldi, con la parola “dovere” stampigliata ovunque in sala da pranzo, ricorda che siam pur sempre a Milano, e non a Palo Alto).

Lì tra lucidi edifici futuristici e il castello medievale alligna il Pirelliano; poche grandi storie di impresa hanno dato vita a un neologismo e a una tribù, ci sono “gli olivettiani”, che sembrano un ordine cistercense, e poi i pirelliani, magari meno celebri, e però definiscono un’umanità precisa, milanese ma internazionale, legata alla tradizione ma anche all’innovazione, con un occhio all’estero ma molto radicata nella propria dimensione soprattutto umana, ecco. Nell’ordine dei Pirelliani spicca la figura dei Maestri, figure che insegnano la loro esperienza ai più giovani. E in questa cattedrale mista di antico e moderno non può mancare una biblioteca, una biblioteca aperta a tutti i dipendenti, che contiene non solo testi di impresa ma romanzi, cataloghi d’arte, e libri per bambini.

E lì, a fare la guardia, non un cagnone ma l’enorme gatto gommoso Meo Romeo, disegnato da Bruno Munari, che mentre faceva il simbolo della Lombardia inventava anche giocattoli. “E’ necessario che l’artista abbandoni ogni aspetto romantico e diventi uomo attivo tra gli uomini, informato sulle tecniche attuali, sui materiali, e sui metodi di lavoro”, scriveva. Munari per Pirelli fece un sacco di cose: i giocattoli in gommapiuma armata, il gatto e la scimmietta “Zizi”, grazie alla quale vince il Compasso d’Oro. Nel 1952 diventa direttore artistico dei giocattoli “Pigomma”. Anche lui è perplesso dalla dimensione della colossale Pirelli: “vorrei anche sollecitare questa produzione ma, come faccio io in quell’enorme complesso di stabilimenti grande, come un paese, dove si muovono interessi grossi, io, Bruno Munari, dal peso di quarantotto chili, non mi sento di disturbare tanto lavoro e aspetto il mio gatto, all’angolo della strada, assieme a tanti bambini che mi hanno chiesto se per Natale lo possono avere”.

E il contrasto c’è, tra la multinazionale tecnologica e un aspetto anche giocoso e molto umano: così, nella severa hall del quartier generale, ecco in bella vista il mescolatore, come se fosse un’opera d’arte pop, messo lì, col suo colore rosso, come appunto un giocattolo, per ricordare da dove si arriva, anche oggi che Pirelli si concentra sul futuro fatto di gomme specialissime per macchine elettriche e che un giorno si guideranno da sole (a proposito, pare che uno dei problemi maggiori sia la troppa accelerazione delle nuove auto elettriche, che consuma il battistrada: di nuovo, la potenza è nulla senza controllo).

E il mescolatore sta proprio sotto un’altra cosa che in Silicon Valley non hanno: una torre, una enorme torre di raffreddamento, collocata come un grande objet trouvé in una enorme teca nel complesso disegnato da Vittorio Gregotti. E fuori, in questo distretto della gomma, per addolcire il tutto, come uno scherzo, ecco la fabbrica Haribo di gomme edibili. Simboli, tanti simboli, di ciò che Pirelli è stata, basta guardare la leggendaria rivista Pirelli, su cui hanno scritto Buzzati e Montale, e Gadda, e i reportage di Mulas, Roiter, Sellerio e le illustrazioni di Guttuso e Mendini. Negli archivi, tre chilometri lineari di documenti, e foto, e manifesti, i migliori cervelli milanesi che crearono il layout del boom: e anche l’ultima pubblicità del celeberrimo Cinturato è un’opera d’arte degna d’essere esposta al Pirelli HangarBicocca, (ma non diciamolo al rigoroso direttore Vicente Todolì).

Già, perché c’è pure un museo, quello mica ce l’hanno in Silicon Valley: il Pirelli HangarBicocca, gigantesco antro ove una volta si facevano i treni e oggi invece si tengono fondamentali mostre, tutte gratuite, rarità tra i musei privati milanesi e italiani, e tra un artista cinese e uno africano ecco i sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. Sette torrette di guardia sulla storia, che se ne stanno lì come piccoli Pirelloni a guardare cosa succede di sotto, tra la città e la fabbrica, e soprattutto l’umanità, l’umanità di Milano e del mondo ˙

Michele
Masneri

Giornalista e scrittore, già inviato da San Francisco per il Il Foglio, Michele Masneri scrive di cultura, di design e altro per il quotidiano romano. Ha pubblicato per Minimum Fax il romanzo “Addio, Monti” (2014) e per Adelphi “Steve Jobs non abita più qui” (2020), una raccolta di saggi dalla California durante la presidenza Trump.

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